Questo breve dialogo tra il Collettivomensa e l’amico Vanni Santoni è stato registrato al Caffè Notte di Firenze a Natale del 2013. Lo pubblichiamo, in forma di monologo, soltanto ora, a distanza di cinque mesi, provando così a non farlo essere un dialogo promozionale ma un monologo prettamente letterario. Visto l’andazzo che prese la conversazione del Caffè Notte in quel che fu Dicembre – in cui noi, ubriachelli, davamo del vagamente-Kubrick a Santoni, e lui ci rispondeva con dei pipponi coltissimi sul senso della sua crescita letteraria, della forma, dello stile e del versificare, ripetendo allo sfinimento che Kubrick con lui non c’entra poi una mazza, tuttalpiù l’ambizione al Malick di tanti anni fa, e nell’intervista qui sotto tutte queste parti ve le risparmiamo – abbiamo deciso che questa sarebbe stata una specie di retrospettiva santoniana a volo d’uccello e non un’istantanea per pubblicizzare la riedizione per Voland di Personaggi Precari (che con un sotterfugio da fighetti pubblicizziamo uguale).
Avevo 25 anni, mi avvicinai ad una rivista letteraria autoprodotta che si chiamava Mostro: il primo incontro ci fu nel novembre 2003, il secondo già a marzo 2004, roba del genere, ed erano tutti bravi. C’era gente che scriveva a livello ben oltre l’amatoriale, che rifletteva una letteratura di un certo modo. Portai il mio primo racconto ed era una merda rispetto ai loro, e per colmare il gap che avevo dovevo giocare sulla quantità. Cosi aprii il blog per fare un esercitazione continua e uscirono le prime bozze dei miei Personaggi Precari.
Il barone Barozzo da Montamaro fece venire trecento mercenari dalla Svizzera per difendere il feudo da alcuni vicini fattisi ostili. Quando gli svizzeri arrivarono, trovando il feudo così sguarnito eppure prospero, prontamente lo saccheggiarono, stuprando lo stuprabile e ponendo infine sotto assedio il castello. Le deboli difese furono frante in tre ore e mezza, e l’assedio si concluse bevendo il vino dalle botti spaccate e sodomizzando il barone tra gran risate.
Questa è una traccia di quell’epoca, bisognava provare qualunque tipo di cosa. Si tratta niente meno che di una parodia del medioevo, è Brancaleone o quel tipo di mondo lì, in cui facendo parodia di un’epoca oltremodo estetizzata la si rende realismo. Questa era un’operazione di quelle: stavo provando a scrivere roba a casaccio per scovare una qualunque via.
Poi è arrivata la disciplina, che deriva dalla responsabilizzazione, che a sua volta deriva dall’avere uno spazio in internet. Se hai un blog ci sono per forza dei lettori, anche se sono tre questi qui ti responsabilizzano, sai che questi sono abituati ad un certo livello più o meno percepito di qualità.
Avevo già provato a scrivere un romanzo ai tempi di Mostro, poi ci fu questo concorso sul miglior personal web, che vinsi facendo la prima sintesi di Personaggi Precari. Ne avevo molti, tipo 1000-2000 che scremai a 500. Lì fu il mio primo gesto letterario, perché selezionando un 10% di quello che hai scritto, di fatto stai facendo delle scelte in termini estetici molto pesanti. Apparentemente sembrava stessi scegliendo i personaggi superficialmente più belli, invece stavo dettando delle linee di poetica.
Ciò che manca in un’impostazione creativa basata sulla quantità è la creazione programmatica, cioè non casuale o su base campionaria. Chiaro che se di Personaggi Precari ne faccio 7000 poi ne scelgo 700; ed è chiaro che in quei 700 ce ne sono 70, che sono l’1%, che incarna davvero una visione del mondo, cioè che hanno una portata romanzesca.
È ben diverso quando si parla del romanzo: in un romanzo ci sono 3 protagonisti, e se ci vuoi fare un romanzo con uno spessore, questi tre devono essere portatori di universi.
Ne Gli interessi in comune (Feltrinelli, 2008) mi trovavo di fronte al problema di dare profondità umana ai personaggi.
Non m’interessava scandalizzare, volevo dimostrare come la sperimentazione con le droghe è oggi un’attività del tutto normalizzata. Questi tizi che popolano il romanzo vagano nella normalità, non sono neanche dei marginali, perché non hanno una controcultura in cui riconoscersi. Un hippy per esempio può davvero prendere degli acidi per farne cultura perché ha una sua controcultura o subcultura in cui rientrare e quindi dice sbagliano gli altri noi abbiamo ragione!
Invece ho scritto sto libro dove c’erano dei tizi smostrati di provincia e poi mi sono reso conto che a rileggerli sembravano degli idioti. Mi accorsi che anche io stavo commettendo degli errori di giudizio, gli stessi errori di chi poi realmente questi ragazzi li giudica. Nel descriverli nei loro comportamenti collettivi li avevo resi banali.
Ci furono quindi in Gli interessi in comune, quei capitoli intermedi tra le varie parti corali in cui invece li prendevo singolarmente, e per dargli spessore gli concedevo dei momenti di approfondimento, ricorrendo alla tecnica che avevo sviluppato con i Personaggi Precari.
Questa tecnica di messa a fuoco qui l’ho ripresa ancora fino all’estremo in Se fossi foco arderei Firenze (Laterza, 2011) in cui effettivamente ci sono dei personaggi precari messi in circolo, strutturati per germogliare in materia romanzesca.
Quello che sto cercando di fare ora è un romanzo fantastico tutto struttura e poco personaggio, e se sto scrivendo un romanzo a metà di un saggio, un libro sulle feste techno, è proprio perché ancora non ho preso esattamente questa misura.
La tecnica nella scrittura è anche stile, quindi non mi ostino nel dominio della tecnica ma mi ostino nel dominio della forma. Conosco le forme romanzesche, forma e/o struttura e le so declinare. Ottenuto questo il mio obiettivo ipotetico è raggiungere il dominio nello stile.
In teoria se uno ha lo stile e la forma può scrivere nella sua esistenza magra almeno un capolavoro. E a questo punto non posso che provarci. I libri li ho pubblicati, nei giornali hanno detto che erano belli, ma di là da questo, l’obiettivo del letterato ad un certo punto deve essere quello di contribuire ad accrescere la qualità letteraria in generale. E noi stiamo già contribuendo, anche senza scrivere capolavori.
Gli scrittori che non scrivono nella loro vita almeno un capolavoro, sono carne da cannone, triste ma necessaria, diceva Bolaño. In una foresta ammiriamo le sequoie o le orchidee e di tutti gli altri cespugli ce ne freghiamo. Ma d’altro canto non trovi un’orchidea in mezzo al deserto o una sequoia in punta alla montagna, i migliori prodotti della foresta li trovi dentro una cazzo di foresta.
Sono arrivato al punto da considerare il romanzo borghese come cosa estinta, il romanzo borghese si è esaurito perché la borghesia è diventata schizofrenica, non è più il paradigma usato per interpretare la realtà. Bisogna superarlo e io ci sto provando.
Ad esempio, il mio film preferito è Badlands di Malick, che è pura sintesi. Demoniaco. Era una storia scritta e riscritta, un film con mille declinazioni, però c’è una fusione drammatica tra forma e stile, anzi di più, c’è uno stile di tale levatura che non ce ne fotte neanche più della forma, diventa irrilevante.
Ecco, mi piacerebbe riuscire con il prossimo romanzo a fare questo, però capisco che è dura per uno scrittore che non è nato geniale. Cazzo, non sono Rimbaud, che raggiunge la sintesi tra forma e stile… a 16 anni.
Temo che il destino dello scrittore non genio che tuttavia è autorizzato dagli dei ad avere un biglietto da giocare alla lotteria passi per forza dal romanzo massimalista. Se non sei Rimbaud se vuoi far uscire un capolavoro devi fare per forza una roba della grandezza di Underworld, 2666, Infinite Jest. Se non porti dentro i germi del genio, è impossibile scrivere un libro come Lo straniero, perché è un libro di questa grandezza così piccolo ha in sé il segreto della sintesi.
Scrivo romanzi ma sono un assoluto fautore della totale supremazia della poesia rispetto alla prosa. Perché la prosa utilizza un’illusione, che è la trama, per fare da mediatore tra forma e stile quindi utilizza il metodo come una sorta di stampella per trovare la sintesi.
Pensate che Personaggi Precari alcuni l’hanno visto come poesia, in America per esempio l’hanno pubblicato in un allegato alla rivista Poetry Magazine, che si chiamava Seven italian contemporary poets, interpretandolo e pensandolo come poesia. È sbagliato! Ci sono sì dei personaggi in versi, seppur con delle enormi carenze di metrica, perché la metrica la conosco, e riconosco le debolezze del mio versificare, ma questo non basta per essere poesia. Al massimo un libro del genere potrà essere interpretato un domani come un libro di un autore colto – colto tra virgolette – che gioca con il concetto di poesia e ci gioca proprio perché è un terreno a lui precluso.
Nel momento in cui tu fai poesia dall’esterno e consapevolmente, sei già fuori dal giochino. È un po’ come descrivere Brahman, che è il tutto, quindi o ci sei dentro o ci sei fuori, ma di certo non esiste che uno da fuori prova a descrivere cosa c’è dentro.
All’inizio, quando iniziai a scrivere, mi ero prefissato un obiettivo: diventare bravo almeno quanto gli altri membri di Mostro, punto. Non ho mai avuto come obiettivo quello di fare un romanzo. Però avevo letto moltissimi romanzi, la questione strutturale mi era abbastanza chiara, ma ignoravo la questione stilistica, cioè quella sovrapposizione che c’è tra stile e forma che fa sì che un romanzo sia bello oppure no.
Ora che sono arrivato ad avere una percezione molto chiara della struttura romanzesca posso spingermi davvero oltre.
Ad esempio se uno domani mi dicesse mi fai un giallo ambientato a san Frediano? io lo faccio.
Chiaramente ora il mio obiettivo è cambiato ed è diventato qualcosa di più irraggiungibile.
Collettivomensa, 2014
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