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MONSTERPIECE: NEW ISSUE COLLETTIVOMENSA

19 Giu

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Collettivomensa non porta rancore e segna un’altra tappa imprescindibile nella storia del mondo tutto. Monsterpiece, la nuova produzione targata CM, è appena uscita dalle clandestine fauci tipografiche. L’abbiamo pagata piuttosto cara, abbiamo sofferto? Sì, ma ne è valsa la penna, il pennarello e milleesettecentoeuri. Questa volta è un numero piuttosto colorato, vi è da dire, prima ancora che lo sottolinei la critica di settore, sia all’esterno che all’interno la pagina risplende di mostruosità fottutamente popdance, l’ottima grafica del Salerno colpisce ancora l’occhio improvvido e sprovveduto a cotanta acutezza e ricercatezza. La copertina del Giordano grida di disperazione spalancando becchi fosforescenti nell’assolato buio e che altri paragoni potrei fare? Bah, va bene così. Un po’ arretrato sulla fascia il Pronostico non manca però nelle illustrazioni, suoi i bambini che procedono nel mezzo del mezzo del mezzo del cammin della loro sporchissima vita, attratti da due gigantesche tube di falloppio che a volte per questi mostri si perdono le dita. Ottima prestazione anche per il Biazzo che non abbandona il solito surrealismo editoriale, con un bel blob complottistico che imprime a fuoco nel voluttuoso prosumer che con la carta o ti pulisci, o è inutile cercare un’altra interazione, insomma è inutile che stai lì col ditino touch. Lodevole la prova dell’Akab nostro attuale genio preferito, che piazza un bel manifesto pubblicitario al quale non si può proprio dire di no. E che dire degli altri? Se non che non li ho letti? Forse che ho molta voglia di leggerli? Corrisponderebbe al vero? Posso farmi queste domande pubblicamente in un post che dovrebbe non sembrare, ma almeno essere pubblicitario? Non lo so. Forse la risposta è contenuta proprio qui, in questa rivista patinata che mi grida leggimi, nonostante il suo aspetto mostruoso ci tiene a precisarlo dai mostri, a volte nascono dei capolavori. Per cui se il mostro ti guarda, tu non voltare la testa, dagli cinque euro, soprattutto se lo vedi dal 21 al 24 al Crack! di Roma. Fidati, non morde, e se ti piace, fattici una foto ricordo. Banalizza le tue paure, la morte è sopravvalutata.

 

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L’Ascensione di Roberto Baggio – intervista a Matteo Salimbeni

24 Gen

“Baggio è un’essenza, non appartiene ai narratori, al pubblico o al calcio stesso. Baggio smette di essere Baggio, smette di essere un calciatore, smette di essere tutti i singoli pezzi che lo compongono, smette di essere una parte specifica della memoria e ascende in una prospettiva mitologica. E’ per questo che Baggio si può permettere di attraversare le epoche storiche, di andare a ritroso nel tempo e di essere un goal che non è stato, si può permettere di essere qualsiasi cosa, per questo Baggio è tutto.”

 

L’Ascensione di Roberto Baggio, di Matteo Salimbeni  e Vanni Santoni (Mattioli 2011) è un libro che a mia madre non piace, perché a mia madre il calcio non è mai piaciuto. E vallo a spiegare poi a mia madre questo non è un romanzo sul calcio e che il calcio in questo libro non è altro che un magico luogo attorno al quale tutto accade, un po’ come è un luogo il mare nell’Odissea (l’Odissea non è un poema sul mare pure se il mare effettivamente c’è, ed è ovunque), e poi, lo capirebbe mai, la mia povera mamma, che questo romanzo non è neanche una biografia di Roberto Baggio – negli stessi termini per cui l’Odissea non è la biografia di Ulisse chiaro – ma altresì un romanzo vero e proprio, che narra della metamorfosi epica di un campione maledetto che con il suo genio e i suoi tormenti trascende dal suo piedino fatato marchio Diadora e diventa nientedimeno che un mito. Forse lo capirebbe mia madre, se le spiegassi che in definitiva L’Ascensione di Roberto Baggio non è Fabio Caressa che sbarella in tv in una calda notte di luglio duemilasei, niente affatto, ma è qualcosa che si avvicina molto di più ad una Via Crucis, alla folgorazione di un popolo intero per un esile calciatore col codino, per di più perdente, manco Paolo Brosio a Medjugorje. E forse se capisse questo sarei quasi sicuro che il romanzo di Salimbeni e Santoni le piacerebbe pure e tanto. 

Di epopee, genio e Roberto Baggio parliamo in questa intervista con Matteo Salimbeni, e chissà che almeno a lui, col suo fare affabile che tanto piace alle cinquantenni, mia madre dia ascolto e si redima. 

 

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COLLETTIVOMENSA INTERVISTA MATTEO SALIMBENI: 

 

“L’idea di scrivere un romanzo su Roberto Baggio ci è venuta otto anni fa (nel 2003 ndr). È nata come un esercizio letterario su una passione condivisa, nella quale riconoscevamo sempre più elementi di spunto per un romanzo. Ogni volta che ci appropriavamo di una serie di elementi sulla sua incredibile vicenda umana e sportiva ci accorgevamo di trovarci catapultati in altrettante e diverse storie e punti di vista in cui per forza bisognava addentrarsi. Questa possibilità di analizzare il personaggio da diverse sfaccettature era resa possibile in un certo senso dall’eterna fragilità di Roberto Baggio, che invece la storia di altri campioni, chiusi nel loro perfetto guscio granitico, non ci avrebbe permesso.

Per questo ci è venuto naturale scrivere un romanzo e non un’autobiografia, andare aldilà di Baggio uomo e creare un viaggio mitologico all’interno dei 20 anni in cui Roberto ha giocato a calcio: un viaggio letterario, in cui la figura del campione è il mezzo che ti permette di relazionare il calcio parlato, le mitologie delle piazze, la rappresentazione più vera della pancia italiana, tutti significati che vanno oltre il gesto sportivo, cosa che altri calciatori per la loro storia non ti permettono. Forse un mito come Maradona te lo permetterebbe. Anche se Maradona ti lascia meno margine d’interpretazione, perché si identifica con la squadra, perché ha vinto molto di più, perché è un campione riconosciuto. Baggio sintetizza una poesia tragica per certi versi meno stereotipabile. Ha più contraddizioni. Ti permette di esplorare molti più campi. Il fatto che non abbia mai vinto; il fatto che sia stato il simbolo di una Nazione per 16 anni- e prima e dopo di lui l’Italia abbia vinto i suoi Mondiali, cioè lui è arrivato e l’Italia ha smesso di vincere, lui è andato via e l’Italia ha ripreso a vincere; il fatto che abbia giocato con un ginocchio spaccato per 20 anni; il fatto che non si sia mai fermato in una città; il fatto che, pur essendo uno dei giocatori più forti di sempre, non solo non ha mai vinto, ma non ha mai avuto la prosopopea del campione. 

Per iniziare abbiamo cominciato a osservare Baggio da tantissimi punti di vista. Ogni punto di vista comprendeva una tematica, un piano di lettura differente. Baggio dal punto di vista tecnico, Baggio dal punto di vista spirituale, umano eccetera. Ognuna di queste riflessioni è diventata un racconto. Infine abbiamo creato una cornice: due personaggi senza volto cui viene chiesto da un improbabile editore di andare a cercare per l’Italia Roberto Baggio. Solo che loro non si ricordano chi sia, Baggio. Lo ricorderanno nel corso del tragitto. La struttura del romanzo è quindi composta da due filoni: uno è quello dei due narratori e del loro viaggio, l’altro è quello dei racconti veri e propri che avvengono per bocca dei personaggi che i due narratori incontrano. Questo schema può risultare un po’ approssimativo e ingenuo, però in alcuni momenti ha dei pregi enormi. Per esempio, ci ha permesso di fare dei ritratti dettagliati della Pinetina, di Milanello, di ciò che ruota intorno al campo da calcio, delle città, al paesaggio sportivo italiano. 

Raccontiamo di Baggio relazionandolo con tutto: con le squadre, coi compagni, con gli allenatori, costruendo una mitologia che è abbastanza malleabile. Baggio a Brescia è una cosa, a Bologna è un’altra, a Italia ’90 un’altra ancora: in modo palpabile, netto. Le tappe di Baggio sono delle ere, degli obelischi, ora di ghiaccio ora di fuoco. L’Ascensione di Roberto Baggio non è propriamente una Via Crucis, l’affinità Baggio-Cristo c’è in alcuni momenti del romanzo, ma non è la chiave di lettura. Tutto il percorso non è stato pensato in quella direzione lì. L’idea di smaterializzare Baggio, è venuta fuori perché era il modo più onesto di rispecchiare il fatto che ognuno conserva un ricordo, un frammento, un pezzo di Baggio dentro di sé, che non sempre riguarda il Baggio atleta. Una serie di spezzoni di memoria che appartengono all’Italia nella sua parte più intima. La progressione tra le varie stazioni che scandiscono la vita di Roberto Baggio non è pensata in termini cristologici, ma è indubbio che partendo dalla città, quindi dall’esperienza più percepibile e immediata, e poi via via ampliando i significati fino alla consacrazione calcistica di Baggio, che è il simbolo dell’Italia, in una squadra come il Brescia, si delinei un percorso che ascende verso il metafisico. È bello vedere come ogni cosa che Baggio tocca cambi volto. Baggio innesca delle reazioni chimiche su più strati. Ovunque si posi riesce ad illuminare e mettere in discussione una scala di valori. Ma è ancora più bello scoprire che questa qualità mitopoietica di Baggio non segue un percorso univoco. A seconda di dove si posa Baggio crea un processo epico diverso, un racconto che ha uno stile diverso dal precedente. E infatti, in ogni luogo noi abbiamo visto una leggenda incredibilmente nuova. Come se stessimo parlando di un altro calciatore, anche se poi era sempre lo stesso. Forse è questo che ci ha permesso di arrivare a quel particolare finale: Baggio trascende un volto, un significato unico. 

All’inizio, quando abbiamo suddiviso la storia in momenti storici, capitali spirituali e calcistiche di Baggio, ci siamo accorti che ogni capitolo parlava una lingua completamente diversa. Questo ci ha permesso di non parlare soltanto di Baggio, ma di essere laterali, di andare in altri territori. Brescia ci ha permesso di parlare della Leonessa d’Italia che risorge e trova nuova mitologia, nuovo materiale, nuova carne da masticare. Firenze ci ha permesso di parlare della capitale del Rinascimento orfana del suo più grande artista, Antonioni, di un passaggio di bandiera che poi è stato vanificato. Italia ’90 di come Baggio diventi musica. La musica di notti magiche.  Fino ad arrivare a Caldogno, in cui tutto esplode, e dove convivono tutte le epoche e fasi storiche di Baggio.

All’inizio il titolo era ‘La maledizione di Roberto Baggio’, poi l’abbiamo tramutato in ‘L’Ascensione…’ perché la maledizione non rappresentava il movimento del libro. L’ascensione si porta dietro un movimento molto più eterogeneo, che lascia più possibilità di analisi, anche se la maledizione è un motivo ricorrente nella vita di Baggio (il campione che perde). Da un certo punto di vista è stato meglio così. Vincere un mondiale con Baggio sarebbe stato sconvolgente perché avrebbe aperto un varco di emotività, di alterità rispetto allo spirito in cui gli italiani si riconoscono. Ovvero quello con cui l’Italia nel 2006 ha vinto i mondiali. Vincere un mondiale con Baggio sarebbe stato un precedente letale, perché l’Italia si sarebbe specchiata in qualcosa di così magnifico che da lì in poi niente avrebbe avuto più significato. 

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Ogni eroe che si rispetti attira a sé i suoi nemici, e in questo romanzo gli antagonisti sono tanti. Dovendo superare delle tappe, Baggio da giocatore ha la possibilità di duellare e anche di perdere. Lippi è un’antagonista, Sacchi è un’antagonista, quasi tutti gli allenatori sono stati antagonisti. A livello istituzionale avviene sempre uno scontro di personalità, di geometrie, di conflitto col genio. Ed è per questo che gli allenatori sono gli antagonisti per eccellenza di Baggio-genio. L’allenatore deve gestire una squadra, deve tenere conto di simmetrie, deve essere diabolico, la simmetria è diabolica. L’allenatore deve, in qualche modo, chiudere la squadra. Tenerla e in maglie molto strette. L’enorme maglia del numero 10 o del genio è ben difficile gestirla, devi fare un grandissimo passo indietro.

Ma anche, da un certo punto di vista, il popolo italiano non gli è stato favorevole. È difficile che il genio in Italia, il genio, non il talento, venga fuori, e gli venga dato il terreno giusto per crescere. Poi,  nel momento in cui c’è, viene osannato. Basta vedere in occasione dei mondiali del 2002. C’erano le paginate, con Baggio. Tumulti. Ma anche i non geni vengono osannati, quindi… Il genio non può far regola. E’ pericoloso. Il genio- intendendolo come movimento libertario, cioè come l’eccezione fa l’eccezione, l’eccezione che costruisce una cattedrale di eccezioni. 

Baggio è un personaggio perfetto perché è mobile, diciamo che la sua caratteristica sta in questo, e in questo sta la possibilità di scrivere un Romanzo, di trasformare un uomo in un’avventura letteraria. Baggio non è mai uguale a se stesso, e questo esige che tu cerchi una verità differente in ogni suo aspetto.”

 

(Grazie a Viviana che ha sbobinato il malloppo)

 

Collettivomensa intervista quel figo di Luca Moretti

21 Nov

Questa intervista è il sogno delle più truci casalinghe di periferia. Io l’ho pure toccato, Luca Moretti, e mai più laverommi questa mano. Lo giuro. Mai.

Collettivomensa vanisantona Vanni Santoni

7 Nov

Vanni Santoni tenta di disarmare Vanni Santoni

Se vogliamo essere onesti, non ero convinto di questo titolo. “Se fossi fuoco arderei Firenze” suscita interesse utilizzando una leva molto nota, e quindi facile. Se avessi citato – o meglio, se avessi trovato da citare – che so, Folgore da San Gimignano, sarebbe stato di certo un titolo più bello. Citare Angiolieri, e con lui De Andrè, significa andare in un territorio che ha un piede nel cliché, e ne sono consapevole. A mia discolpa posso dire che questo titolo è il titolo di lavorazione, che ha avuto comunque il merito di fissare i toni del romanzo, e che d’altronde non sono riuscito a trovarne un altro che, a parità di efficacia, fosse anche privo di quel tocco di ruffianeria. Quando si cerca di scrivere un libro, se si è un minimo onesti, si cerca sempre di sfuggire a tutte le logiche marchettare che incombono. Io ho cercato di evitarle in tutti i modi possibili. No, non mi sento per niente una Pro Loco di Firenze, perchè il mio libro fa tutt’altro tipo di  lavoro. Va bene, dico delle cose su Firenze, alcune pure buone. Ti dico che San Miniato al Monte è bellissima, e qui puoi fare tutte le considerazioni che vuoi, ma tanto quando sali quelle scale e te la trovi lì di fronte te ne vai affanculo all’istante e per qualche decina di minuti diventi un monaco olivetano. Così anche il Battistero, così gli altri monumenti che non sono finiti nel cliché. Non mi sento di dire che il Duomo è bello, almeno visto di fronte – di lato, magari… – così come per esempio non osanno la vista di Firenze da piazzale Michelangelo, non perchè non sia bella – è meravigliosa – ma perché ormai anche lei è diventata un cliché, come il Colosseo, come la torre di Pisa: la sua immagine si sovrappone all’immagine del proprio souvenir, e questo la fotte.

La prima cosa che ho fatto per lavorare a questo libro è stato prendere una mappa della città e cerchiare tutti i posti che per me avevano un significato particolare. Questo è avvenuto molto prima di raccontare i personaggi, e lo dimostra il primo capitolo, dove c’è un tizio che arriva a Firenze, che è poi l’autore che si approccia al romanzo senza ancora saper bene come si muoverà – poi, a libro in vita, credo possa diventare il lettore –  e allora cerca di trovare dei punti di vista possibili, finché scende dentro la città, si becca in faccia il culo di Santa Maria Novella, e da lì si comincia. C’è stato poi un secondo livello, una sorta di analisi sociologica di superficie – ho iniziato a chiedermi: in questo posto chi ci va? In quest’altro chi non ci va? Chi c’è a S. Croce? I pusher più allezziti. Chi c’è qua? E là, invece? I massoni?  I gambrini? E allora mettiamoci i massoni e i gambrini. Sono partito dai luoghi. Da tre anni tengo una rubrica nel Corriere Fiorentino, sulle strade di Firenze: ogni settimana vado in una specifica strada o piazza, di solito lo faccio di notte, quando non c’è gente, la analizzo, me la studio, e poi ci scrivo un pezzo che può andare dalla storia dell’arte alla sociologia urbana, con tutte le declinazioni che ci sono in mezzo. Quando per tre anni fai questo tipo di lavoro – e in tre anni fanno centocinquanta strade – ti si forma in testa una specie di legenda e questo ti condiziona: prima i luoghi non ero abituato a guardarli così. Ne “Gli interessi in comune”, le descrizioni di Figline o Ambra sono ridotte al minimo, anzi non c’è scritto proprio niente, e forse la forza di quel libro è anche quella, il fatto di avere uno scenario caratterizzato per lingua e spirito ma per il resto intercambiabile con qualsiasi altra provincia italiana. Mi interessavano le persone, non i luoghi, ma forse era solo che mi mancavano determinati strumenti. Al momento della stesura di “Se fossi fuoco arderei Firenze” venivo invece da tre anni in cui mi ero forzato a fare un lavoro costante, analitico, sulla topografia cittadina. Non credo di essere ancora a un grado di maturità letteraria tale da ottenere il dato analitico e poi di farlo esplodere completamente, che è uno stato elevato della materia artistica, è Picasso che prende la roba con la precisione di un ingegnere e poi la fa saltare in aria mantenendone però tutta la verità – anzi, scoprendone un’altra più profonda. Questo è il mio primo lavoro che viene da un approccio così analitico e quindi se il tentativo di esplosione c’è, e a volte forse avviene pure, può anche capitare che le griglie che rendono possibile tale approccio si facciano sentire.

Se guardi una foto aerea di Firenze scorgi centinaia e centinaia di parchi e giardini che dal basso non puoi vedere, perché sono all’interno dei palazzi e degli isolati. La prima volta che mi accorsi di questo fatto ero effettivamente in una casa di Santo Spirito, come Diego nel libro: vado a fumarmi un cicchino nella terrazza di una casa altrui – Santo Spirito uno se la immagina tutta di pietra, ma la casa è al quinto piano, io guardo sotto e, bam, c’è un giardino all’inglese che include un labirinto di bosso, rimango sgomento, no aspetta, di questa città non ci ho capito un cazzo, perchè in effetti è tutto diverso da come lo immagini passando per le sue strade, tu magari sei in via Nazionale, la vedi in un certo modo, poi entri in un portone, attraversi un androne e ti ritrovi in un parco con i pini, le palme, i cani, oppure vai a una mostra in un palazzo di via Cavour, sbagli la strada per il bagno e ti ritrovi in una corte con le statue, le cornucopie che gettano acqua. Il fatto di avere i giardini dentro le case, nascosti – e sono dappertutto – è una cosa… Firenze è tutta fatta di luoghi segreti.
Poi ci sono i monumenti. In “Se fossi fuoco…” il monumento per eccellenza credo sia San Miniato al Monte, dove si conclude il libro, San Miniato che prima di essere una basilica è faro, e un cimitero. È una scelta mirata, certo: vuoi raccontare Firenze? Sì, bravo, infilati lì sotto a quella lapide. Una delle morali del romanzo può essere questa, forse,  qualcosa del tipo “qui hanno abitato i titani, non è posto per gli uomini”. In un luogo dove il passato si sedimenta, si stratifica e impone il suo rumore di fondo, soltanto consegnandoti a esso – morendo e facendoti marmo, proprio come i monumenti di Firenze – puoi iniziare a intessere davvero un dialogo.

 copertina Se fossi fuoco, arderei Firenze

In questo libro inquadro un contesto preciso: per fare un esempio, di là da Porta Romana comincia un’area che è sempre Firenze ma che va via disperdendosi nell’aretino, nel Valdarno. Già ti senti un po’ montevarchino appena la passi. Ecco, Firenze va ben oltre la cerchia delle mura vasariane, ci sono fiorentini che abitano a Gavinana o a Campo di Marte, e anzi sono per certi molti versi più fiorentini – oltre che molti di più – di coloro che abitano nel centro storico, ma questo libro sceglie scientemente di stare all’interno della cerchia, perché quella che sta dentro è la Firenze che porta più pesantemente sulle spalle tutto quanto è accaduto prima, perchè, insomma, tu puoi abitare con una certa tranquillità a Campo di Marte, che è simile a qualsiasi altro quartiere borghese, belle case, qualche nota storica, ma non c’hai Brunelleschi che incombe su di te. E dunque è il centro l’enigma, la questione rilevante, perchè se io dovessi parlare di quello che sta fuori dalla cerchia, spingendomi a quel punto anche alla periferia, andrei di nuovo agli strumenti, ai toni de “Gli interessi in comune“, è Firenze ma potrebbe essere benissimo Bologna o Padova. Il centro di Firenze, invece, ha tratti in comune solo con quello di Venezia, dove però c’è l’acqua, e quindi è ancora più spopolato ed estremo, ma il fatto che sia estremo lo rende già qualcosa, non so, diventa come le Paludi Morte del Signore degli Anelli, un luogo che fa spavento ma che è anche sede di misteri insondabili. Firenze non è ancora abbastanza spopolata da tornare bella, perchè a Firenze ancora ci sono le persone, le boutique, il traffico, per cui ti confronti quotidianamente con una dialettica che va dal bellissimo al terribile, e alla fine diventi un po’ schizoide, il tuo rapporto con la città diventa per forza un rapporto di amore/odio.

I Personaggi Precari possono avere i loro numeri nella brevità e nell’ellissi narrativa, però poi quando devi costruire un personaggio e sai che te lo devi trovare per cinquanta, cento pagine, questo personaggio deve avere le spalle larghe, non importa a partire da quale spunto tu lo abbia creato.
Sulle strutture geometriche, che dire… Per me, almeno in questo momento della mia attività di scrittore, sono molto importanti. Sono cresciuto con “Le città invisibili”, anche se credo che lo schema interno non dovrebbe essere così visibile; amo molto “Rayuela”, “2666”, “La montagna incantata”… Per fare un altro esempio, “Infinite Jest”, che a prima vista sembra un gran casino, ha invece uno schema  geometrico serrato, una struttura ricalcata sul triangolo di Sierpinski affiancata a un lavoro di elevata complessità sulla cronologia, quindi penso che DFW abbia lavorato enormemente sulla geometria interna del libro, non sono cose che si fanno solo con l’intuito o col talento. Con l’esperienza, magari,  guadagni la capacità di intuire queste modulazioni già mentre scrivi, ma la schematizzazione per me rimane un punto essenziale del lavoro su un romanzo. Lo schema a volte genera da solo delle idee, dei registri – ti fa vedere delle cose. A un certo punto avevo fatto uno schema di relazioni dei personaggi di “Se fossi fuoco…” che era incredibile, i collegamenti erano rappresentati con linee curve e alla fine ne è uscito un disegno che ricordava alla lontana l’architettura del Duomo… Ovviamente è stato un mio intorto, nato dal semplice fatto che era più pratico mettere le curve basse all’inizio e le alte in mezzo, però è vero che quando lo schema assume una rilevanza simbolica ti dà dei contenuti aggiuntivi, ti dice che cosa il testo può significare.
Schematizzare ti aiuta anche a tappare i buchi o viceversa a decidere cosa togliere. Questo libro inizialmente doveva avere un finale tipo “The Wire”, una serie tv che dà il meglio nell’ultima puntata di ogni stagione, dove c’è una lunghissima carrellata che ripercorre tutti i personaggi e i luoghi della stagione, tutto quello che è successo o sta succedendo, e di fatto ti dice guarda, questa è Baltimora, o il mondo, ed è un ciclo che non si esaurisce mai, e sta proprio lì la “grande narrazione” di quella serie. Inizialmente avevo pensato di fare una cosa del genere, un ultimo capitolo in cui si ripassavano a volo di uccello – anzi stando più bassi, a volo di piccione – tutte le strade e le piazze e i locali e le case, e si ritrovavano tutti i personaggi visti fino a quel momento, presi in un nuovo momento delle loro esistenze, magari intessuti in nuove relazioni. In questo caso è stato uno degli schemi grafici che avevo fatto a dirmi che non ce n’era bisogno. Da esso potevo ben vedere che il libro aveva già una struttura solidamente circolare: un finale che  sottolineasse ulteriormente questa circolarità sarebbe stato pedante e quindi l’ho cassato. A un certo punto ho fatto un grafico sul movimento dei personaggi, le vicende di molti dei quali ancora non erano neanche state scritte, e ho notato – quella è stata la prima volta che ho pensato che avrebbe potuto  venir fuori qualcosa di valido, di funzionante – che nel primo blocco quasi tutti i protagonisti arrivavano e qualcuno rimaneva, nel secondo blocco alcuni rimanevano e altri se ne andavano, mentre nell’ultimo blocco alcuni scomparivano mentre altri ritornavano. C’era un movimento del tipo arrivare, rimanere/andarsene, tornare. Questo mi fa pensare che Firenze prima ancora di essere un posto da cui andarsene sia un attrattore.
Gli schemi sono utili anche per gestire altre questioni, ad esempio l’ordine delle apparizioni: in “Se fossi fuoco…” c’erano tanti protagonisti – nonostante dalle prime bozze si fossero ridotti perchè avevo preso a ibridarli, a fare delle crasi, ne erano comunque rimasti ventitré – e avevo bisogno di farli apparire secondo modulazioni appropriate. Pensa alla musica, immagina un libro come se avesse vari sottotoni, delle linee melodiche ulteriori. La corrente principale – i bassi, se vogliamo spostare l’esempio sulla musica elettronica – è la narrazione, quello che vedono o fanno i personaggi, poi ci sono delle linee sottostanti, e non parlo solo di linee spaziali, cronologiche e simboliche, ma anche tonali. Per fare un esempio semplice semplice, se in un libro vengono presentati prima cinque personaggi depressi e poi cinque personaggi esaltati, è completamente diverso che presentarli alternati. Una volta creati i caratteri, avevo dunque esigenza di distribuirli all’interno dei vari episodi in modo equilibrato, mantenendo allo stesso tempo un percorso armonico all’interno dello spazio, della mappa fiorentina, e quindi giù schemi.
Già ai tempi de “Gli interessi in comune” facevo molto lavoro in questo senso, anche se erano ancora schemi piuttosto rudimentali; poi nel frattempo è nato il progetto SIC, un’esperienza che ha certamente radicalizzato questo lavoro, influenzandomi anche nella mia scrittura individuale. Il metodo SIC si fonda su un sistema di schede interconnesse che riguardano ogni singolo elemento narrativo, mette il progetto così fortemente davanti al flusso della prosa che lavorare per quattro anni a opere SIC ti cambia, è come un “ritorno dalla breccia” di marca psichedelica: il cambio di paradigma e prospettiva lascia un segno anche dopo essere svanito, ti conferisce un’abilità, un occhio aggiuntivo e differente.
Mentre lavoravo alle prime bozze di “Europa” (romanzo tuttora in riscrittura N.d.R.), sono arrivato a fare delle card – questo viene, credo, da anni di militanza adolescenziale con le Magic – ognuna delle quali rappresentava una scena. Le facevo usando il retro di vecchi biglietti da visita, avevano scritto sopra il nome della scena, mentre agli angoli apponevo linee di diversi colori: rosso, blu, giallo, verde, a seconda di quali dei quattro protagonisti vi apparissero, più un sistema di marcature, un codice, sui margini alti e bassi, per segnalare comprimari, luoghi, nodi simbolici, digressioni e momenti di interazione o conflitto. Sistemavo le card su un tavolo e provavo vari ordini – immaginate una partita a domino. Se due scene diventavano un capitolo spillavo insieme  le loro carte e così pian piano il romanzo acquisiva una linea e una compattezza – in quel caso era ancora più necessario perché avendo privilegiato seguire, durante la stesura, le chiavi simboliche piuttosto che  gli snodi narrativi, avevo scritto le scene in ordine del tutto sparso. Fatte le card avevo invece davanti questo percorso, in cui potevo capire quali fossero le linee strutturali da far emergere, e anche fare delle prove, degli scambi, in modo molto più agevole, vedevo che per quattro capitoli di fila non appariva il tal protagonista, allora mi chiedevo, come faccio a bilanciare questa cosa? Lo cito qui? Sposto quest’altra scena? E potevo anche provare scelte di più largo respiro, come ribaltare la cronologia dell’intero romanzo o passare a una narrazione per vignette. Provare a comporre e ricomporre intere strutture romanzesche su Word significherebbe doverti rileggere tutto il romanzo ogni volta – significherebbe impazzire.

Purtroppo non si possono fare considerazioni esclusivamente esistenziali, alla fine ti trovi sempre a fare anche considerazioni di ordine pratico. L’Italia funziona in un modo che tu con tanta fatica, piano piano formichina, accumuli tutta una serie di reti, di contatti, relazioni, ambiti di fiducia, lavori fatti, collaborazioni, che ti permettono poi di costruirti un’esistenza. In Italia non esiste quell’idea di ehi oggi ho fatto un colloquio e ho trovato un lavoro molto meglio di quello prima, bam e guadagni il doppio. Qua è un piccolo monte alle croci in cui piano piano si possono costruire, come in un formicaio o un termitaio, delle isolette di esperienza e di riconoscimento che pian piano uno può provare a espandere. Mancano le premesse per avere istinti diversi, e questo limita anche l’emigrazione giovanile, che se si guarda il contesto  italiano dovrebbe essere anche maggiore di quanto già non sia. È come se davvero prendi un gruppo di termiti e gli dici bene ragazze allora voi siete cavalli correte! e loro bzzz si mettono a fare un termitaio.

Non credo di essere cooptabile dal potere. No, neanche quando l’immagine del giovane si sovrappone a quella del potere. Al di là del fatto che non c’è nulla di più ignobile di un artista organico, la verità è anche che il problema si pone difficilmente, in quanto uno scrittore, in Italia o nel mondo, ha oggi un’influenza così ridotta da non poter essere semplicemente partecipe della dialettica del potere.
Certo, se un giorno un tuo libro vende un milione di copie, allora è chiaro che le cose cambiano. Questo fatto lo vedi bene con Saviano. L’esempio non è dei migliori perché Saviano si è ritrovato a diventare un’icona anche a causa delle minacce che ha subito, ma è pur vero che la persecuzione da parte del crimine organizzato gli deriva dall’aver venduto un milione di copie. Quando il successo trascende il mondo letterario, che è una nicchia – una subcultura, azzarderei – ed entra nel mainstream vero, ecco che le cose cambiano:  quando vedo Saviano, che c’ha un anno meno di me, è un ragazzo, quando vedo che va con Fabio Fazio va a fare la coscienza dell’Italia, o quello che è diventato adesso, di certo un qualche elemento simbolico che va a far parte della nostra variegata e incoerente coscienza nazionale, mi chiedo: cosa sta succedendo? Credo che il punto sia che a quel livello di visibilità entrano in azione forze che uno non può sperare di controllare, se non forse, isolandosi e parlando soltanto tramite i suoi libri. Finchè ti prendi qualche migliaio di euro di anticipo e sopravvivi in provincia, questo problema non ce l’hai: fai comunque parte del proletariato, o del “proletariato della conoscenza”, o al massimo della piccola borghesia artistica se c’hai anche un lavoro dignitoso, una famiglia che ti supporta o qualche proprietà, e dunque sei ben lontano dalla dialettica del potere. Però chiaramente se un domani vendi un milione di copie, improvvisamente si apre un territorio nuovo e spaventoso: se riesci a non diventare organico, ne esci comunque trasformato. Oppure ti trovi costretto a fare opposizione attiva – non so, tipo Pasolini, ma bisogna averne la forza – o ancora optare per la strada dell’isolamento, ma è comunque una scelta difficilissima.


Collettivomensa molesta Gaetano Cappelli

14 Nov

GAE

L’underground, come definizione, non è che calzi molto con i miei personaggi che possono esser figure di un sottobosco culturale ma anche personaggi già introdotti nel mondo materiale ai quali poi succede qualcosa che da un accenno di successo li riprecipita nel fallimento. Sono personaggi che hanno grandi sogni e grandi speranze ma che poi, nel corso della storia, finiscono tragicomicamente per trovare una loro dimensione in una situazione meno alta. L’immagine che gli si può accostare è quella delle montagne russe, in cui si arriva in cima, per poi sprofondare nell’abisso in vista di una risalita… è un po’ la vita che è fatta così anche se chi legge romanzi vuole più vita. Mi spiego meglio: noi nasciamo e trasciniamo le nostre esistenze e spesso, ahinoi, moriamo senza che in tutto questo sia avvertibile un senso ed ecco che invece tra le pagine meravigliose dei libri, di certi libri, ogni parola, ogni incontro, ogni coincidenza o contrattempo, ogni sventura o fortuna cessa d’essere un mero prodotto del “tempo inerte” – noioso grigio ripetitivo –  che contrassegna la nostra vita reale, per entrare in una delle grandi stupefacenti trame del destino. Leggendo per una sorta di compensazione simbolica, smettiamo così di essere i poveri esseri in balia della casualità che siamo, per trasformarci in eroi con un proprio e personale fato da compiersi: diamo cioè – o almeno ci illudiamo di dare  – un ordine all’esistenza.

Devo dire che il mio destino di scrittore è abbastanza particolare… forse tra i primi in Italia, nell’88, sono riuscito a pubblicare come accadeva in America. Cioè ho preso il manoscritto, l’ho messo in una busta e l’ho mandato in giro per le case editrici. Il punto è che negli anni ’70 non si scrivevano più romanzi. Nessuno ne leggeva. Erano anni un po’ da talebani. In quegli anni pubblicava chi già faceva parte di un gruppo letterario o, comunque, dell’intelligentzia. Poi invece venne fuori questa moda dello scrittore giovane, con i vari De Carlo e Tondelli che tra l’altro fu molto generoso nel portare alla pubblicazione diversi scrittori, con le sue famose antologie Under ’35. Io seppi che Marsilio aveva organizzato una specie di concorso, ben prima di Tondelli, per esordienti. Si chiamava Primo Tempo ed era la prima volta in Italia. Partecipai e fui fortunato: Floppy disk, il mio romanzo d’esordio, uscì subito dopo. Da allora di romanzi ne ho scritti dieci e da quando D’Orrico è riuscito a farmi conoscere a un pubblico più vasto, Marsilio – sì, proprio il mio editore di allora col quale sono curiosamente tornato – sta  ristampandoli tutti. A questo punto sì, posso dire che sono sopravvissuto all’underground.

Fino ad un certo punto Floppy disk è stato il mio romanzo di maggior successo. Poi, a parte Volare Basso, che è entrato un paio di settimane in classifica, non ho mai avuto grandi vendite. Forse il fatto che io viva a Potenza è un po’ un problema. Nel senso che si sa come vanno queste cose, se tu ad esempio la sera, invece di vederti coi tuoi amici – che magari non leggono manco un cazzo – ti vedi con gente che lavora nei giornali, alla radio, in tivvù, è logico che il tuo nome circola. Per me allora è stato importantissimo incontrare Antonio D’Orrico (noto, e discusso, critico letterario ndcm). Detto questo comunque io a Potenza ci vivo benissimo. Mi piace stare coi miei amici e non parlare necessariamente di libri. In fin dei conti leggere è un lusso per pochi! E poi mi piace raccontare nei miei romanzi proprio la Basilicata – intendiamoci non solo la Basilicata. E’ un posto un po’ misterioso. Basilicata Lucania, non si sa neanche come si chiama. E Potenza poi… raccontandola proprio a partire dalla noia di piccola città di provincia vedo che esercita un inspiegabile fascino. In realtà, la novità nella mia scrittura, se ce n’è una, è che non ho descritto il solito sud di disperati. O meglio c’è gente disperata, i disoccupati che fumano al bar del paese eccetera, ma si tratta di gente particolare, cioè non è l’immagine solita del meridionale che tiene u’ ciucc’ (l’asino ndcm) attaccato con la corda, no, si tratta di gente normale, in una parola: moderna.

Il fatto è che lo scrittore deve costruire miti, altrimenti ti compri un giornale e non un romanzo. Io dalle situazioni underground, o marginali, provo a tirar fuori il fascino che conservano. Quando Eugenio Granieri, protagonista di Volare basso (Frassinelli 1994, Marsilio 2009), entra nel bar del suo paese, che poi è Pignola, non trova più Cristo si è fermato ad Eboli, ma gente vestita in certo modo, che fuma, beve e magari parla di certa musica. E questo per noi può essere normale, ma molti lettori si sono chiesti: addirittura questi si vestono così, sentono ‘sta musica. Prima, quando dicevi Potenza al nord non sapevano neanche che esisteva. Ora invece… – (neanche ora, lo sanno, dice il collettivomensa) – Ah, nonostante Woodcock? No, perché c’è stato un momento in cui si sapeva benissimo che Potenza e soprattutto il suo tribunale, esistevano e invece adesso  se lo sono dimenticati di nuovo? Meglio così.

L’editoria non è solo una questione commerciale. Voglio dire: se oggi entri un una libreria trovi veramente di tutto. L’altro giorno leggevo un libro di un tizio che per risolvere i suoi problemi psicologici diventa lottatore di sumo. Pazzesco! Chi vuoi che lo compri? E magari invece diventa un successo. Gli editori giustamente ci provano, ma è un po’ come giocare alla lotteria. Non esiste il libro di cui si può dire avrà sicuramente successo. Perché se così fosse, non avrebbe senso pubblicare cinquanta libri al mese. Pubblicherebbero quello e basta.

Tipo, recentemente ho visto un libro in classifica  (Tutto Camilleri, Barbera 2009), di Gianni Bonina che è un critico come tanti. Bene questo libro è entrato in classifica solo perché nel titolo aveva la parola Camilleri. Non sono quindi gli editori la bestia nera della letteratura. Sono i lettori che sono spesso dei coglioni totali. La gente ormai si compra Camilleri in preda ad un raptus. Cioè finisce per comprare addirittura un libro di Gianni Bonina su Camilleri. Questi l’hanno comprato perché in copertina c’era scritto Camilleri e hanno pensato che fosse uno dei libri che Camilleri sforna, da serial writer, ogni due mesi..

E dire che che Camilleri ha pubblicato il suo primo libro per Lalli (Il corso delle cose, Lalli 1978), che è  il prototipo dell’editore che pubblica a pagamento. E pubblicare con Lalli vuol dire essere uno sfigato pazzesco. Per fortuna la vita è proprio strana visto cosa è poi diventato Camilleri.cappelli

Ecco perchè sostengo che la storia dell’industria editoriale, dei romanzi scritti a tavolino, è una gran cazzata. E anche i lettori, nonostante quello che ho appena detto, hanno un loro carattere. Comprano le cose che vogliono comprare. Non gli si può imporre un libro. Ad esempio quando Rushdie venne in Italia, subito dopo la fatwa, fu lanciato per un suo libro, che faceva schifo, con una pubblicità assurda. È stato supportato da ore ed ore di trasmissioni televisive. Ma il suo libro è andato ‘na cacata. Questo perché non corrispondeva alle attese dei lettori.

Un altro esempio? Tiziano Scarpa. Ha vinto lo Strega ma il suo romanzo sta vendendo assai meno delle attese. E anche il fatto che glielo abbiano commissionato a tavolino per fargli vincere lo Strega è una cazzata. Scarpa ha vinto lo Strega perché ha avuto culo, come ho scritto pure in un mio pezzo. Il candidato di quest’anno di Mondadori trattino Einaudi era infatti Del Giudice. E avrebbe vinto lui sicuramente perché ormai il premio Strega si chiama premio Strega trattino Mondadori. Sono infatti tre anni che Mondadori vince. Prima almeno c’era un alternanza con Rizzoli, ma ora neanche quello. Dunque, Del Giudice ha di fatto rinunciato alla candidatura – dicendo tipo: non partecipo perché so che vincerei – facendo un beau geste e una gran cazzata. Magari confidava che la gente avrebbe letto lo stesso il suo libro per la sua fama di scrittore geniale e invece è andato malissimo.

E allora Scarpa, che scrive dei bellissimi saggi ma dei romanzi che sono una rottura di coglioni, si è trovato con questo romanzo come candidato Einaudi-Mondadori, e guarda un po’ ha vinto. Io di Stabat Mater ho letto solo la prima pagina e mi è bastata. È una di quelle storie che mi tediano a morte, che non leggerei neanche sotto tortura, come non leggerei i libri della Mazzantini che ha vinto il Campiello che è una che fa piangere… piace perché commuove ahaha. E intanto vende tantissimo. Chiagne e fotte insomma.

D’altronde pensavano tutti che lo Strega lo vincesse Scurati (Il bambino che sognava la fine del mondo, Bompiani 2009), uno scrittore che mi fa paura… come uomo, oltre al resto, con quella sua aria perennemente indignata. E invece ha perso per un punto. Be’, sono contento.

Sono stati molto importanti, nella mia giovinezza, i primi libri di Andrea de Carlo, tipo Treno di panna (1981), che è stato un romanzo di rottura, direi uno dei primi romanzi contemporanei d’Italia. E mi ha dato l’idea che anche qui da noi si potesse scrivere qualcosa di moderno. I letterati italiani, diciamolo, erano dei vecchi barbagianni. Anche quelli della mia generazione. Se pensi  a uno come Marco Lodoli che ebbe un buon successo con Diario di un millennio che fugge (1987). Quando lo lessi pensai allora è inutile che scrivo se va bene sta roba. Roba del tipo che ti immagini recitare da quegli attori tromboni, col maglione a collo alto, neo esistenzialisti impegnati, dove ci sono questi due che si isolano sulle coste della Provenza, una roba terrificante.

Oggi tra gli italiani che leggo ci sono Alessandro Piperno, Francesco Piccolo – in cui si sente forse un po’ della mia influenza – Camilla Baresani, Pascale… il mio amico Tramutoli e altri così. E molti nord amaricani. Bellow poi, ho un’adorazione per lui.

La situazione letteraria lucana è buona, perlomeno esiste. Sono stato in Molise, regione piccola come la nostra, e non c’è nessuno. Qui invece ci stanno almeno quei quattro cinque nomi che hanno pubblicato con editoria nazionale. Vi consiglio un libro molto interessante a proposito, che parla della nuova letteratura meridionale. Si chiama Uccidiamo la luna a Marechiaro di Daniela Carmosino per Donzelli. È molto bello, se non altro perché parla bene di me ahaha.

Una buona parte dei critici non riesce a incidere sui gusti del pubblico perché fanno marchette. Poi ci sono quelli indipendenti. Ma il punto è che quasi nessuno li legge. I lettori hanno altri canali. Il passa-parola è il primo tra tutti. Ci sono libri di cui non esce una recensioe e dopo qualche settimana te li trovi in classifica. Nel mio caso che in classifica comunque ci passo di sfuggita, l’abbiamo detto, è stato importante D’Orrico. Ma certo se non fossi piaciuto ai lettori dopo il suo lancio sarei rimasto al chiodo. Invece per dirne una Parenti lontani (Mondadori 2000, Marsilio 2008) che è un libro a cui tengo tantissimo, perché per scriverlo ho impiegato quattro anni, dopo la prima edizione con Mondadori nel 2000, quando era stato un flop pazzesco, ora ha venduto quasi ventimila copie. Così adesso sono contento… ma anche prima che le cose mi andavano male, non ho mai pensato di andarmene da Potenza eh.