
Se vogliamo essere onesti, non ero convinto di questo titolo. “Se fossi fuoco arderei Firenze” suscita interesse utilizzando una leva molto nota, e quindi facile. Se avessi citato – o meglio, se avessi trovato da citare – che so, Folgore da San Gimignano, sarebbe stato di certo un titolo più bello. Citare Angiolieri, e con lui De Andrè, significa andare in un territorio che ha un piede nel cliché, e ne sono consapevole. A mia discolpa posso dire che questo titolo è il titolo di lavorazione, che ha avuto comunque il merito di fissare i toni del romanzo, e che d’altronde non sono riuscito a trovarne un altro che, a parità di efficacia, fosse anche privo di quel tocco di ruffianeria. Quando si cerca di scrivere un libro, se si è un minimo onesti, si cerca sempre di sfuggire a tutte le logiche marchettare che incombono. Io ho cercato di evitarle in tutti i modi possibili. No, non mi sento per niente una Pro Loco di Firenze, perchè il mio libro fa tutt’altro tipo di lavoro. Va bene, dico delle cose su Firenze, alcune pure buone. Ti dico che San Miniato al Monte è bellissima, e qui puoi fare tutte le considerazioni che vuoi, ma tanto quando sali quelle scale e te la trovi lì di fronte te ne vai affanculo all’istante e per qualche decina di minuti diventi un monaco olivetano. Così anche il Battistero, così gli altri monumenti che non sono finiti nel cliché. Non mi sento di dire che il Duomo è bello, almeno visto di fronte – di lato, magari… – così come per esempio non osanno la vista di Firenze da piazzale Michelangelo, non perchè non sia bella – è meravigliosa – ma perché ormai anche lei è diventata un cliché, come il Colosseo, come la torre di Pisa: la sua immagine si sovrappone all’immagine del proprio souvenir, e questo la fotte.
La prima cosa che ho fatto per lavorare a questo libro è stato prendere una mappa della città e cerchiare tutti i posti che per me avevano un significato particolare. Questo è avvenuto molto prima di raccontare i personaggi, e lo dimostra il primo capitolo, dove c’è un tizio che arriva a Firenze, che è poi l’autore che si approccia al romanzo senza ancora saper bene come si muoverà – poi, a libro in vita, credo possa diventare il lettore – e allora cerca di trovare dei punti di vista possibili, finché scende dentro la città, si becca in faccia il culo di Santa Maria Novella, e da lì si comincia. C’è stato poi un secondo livello, una sorta di analisi sociologica di superficie – ho iniziato a chiedermi: in questo posto chi ci va? In quest’altro chi non ci va? Chi c’è a S. Croce? I pusher più allezziti. Chi c’è qua? E là, invece? I massoni? I gambrini? E allora mettiamoci i massoni e i gambrini. Sono partito dai luoghi. Da tre anni tengo una rubrica nel Corriere Fiorentino, sulle strade di Firenze: ogni settimana vado in una specifica strada o piazza, di solito lo faccio di notte, quando non c’è gente, la analizzo, me la studio, e poi ci scrivo un pezzo che può andare dalla storia dell’arte alla sociologia urbana, con tutte le declinazioni che ci sono in mezzo. Quando per tre anni fai questo tipo di lavoro – e in tre anni fanno centocinquanta strade – ti si forma in testa una specie di legenda e questo ti condiziona: prima i luoghi non ero abituato a guardarli così. Ne “Gli interessi in comune”, le descrizioni di Figline o Ambra sono ridotte al minimo, anzi non c’è scritto proprio niente, e forse la forza di quel libro è anche quella, il fatto di avere uno scenario caratterizzato per lingua e spirito ma per il resto intercambiabile con qualsiasi altra provincia italiana. Mi interessavano le persone, non i luoghi, ma forse era solo che mi mancavano determinati strumenti. Al momento della stesura di “Se fossi fuoco arderei Firenze” venivo invece da tre anni in cui mi ero forzato a fare un lavoro costante, analitico, sulla topografia cittadina. Non credo di essere ancora a un grado di maturità letteraria tale da ottenere il dato analitico e poi di farlo esplodere completamente, che è uno stato elevato della materia artistica, è Picasso che prende la roba con la precisione di un ingegnere e poi la fa saltare in aria mantenendone però tutta la verità – anzi, scoprendone un’altra più profonda. Questo è il mio primo lavoro che viene da un approccio così analitico e quindi se il tentativo di esplosione c’è, e a volte forse avviene pure, può anche capitare che le griglie che rendono possibile tale approccio si facciano sentire.
Se guardi una foto aerea di Firenze scorgi centinaia e centinaia di parchi e giardini che dal basso non puoi vedere, perché sono all’interno dei palazzi e degli isolati. La prima volta che mi accorsi di questo fatto ero effettivamente in una casa di Santo Spirito, come Diego nel libro: vado a fumarmi un cicchino nella terrazza di una casa altrui – Santo Spirito uno se la immagina tutta di pietra, ma la casa è al quinto piano, io guardo sotto e, bam, c’è un giardino all’inglese che include un labirinto di bosso, rimango sgomento, no aspetta, di questa città non ci ho capito un cazzo, perchè in effetti è tutto diverso da come lo immagini passando per le sue strade, tu magari sei in via Nazionale, la vedi in un certo modo, poi entri in un portone, attraversi un androne e ti ritrovi in un parco con i pini, le palme, i cani, oppure vai a una mostra in un palazzo di via Cavour, sbagli la strada per il bagno e ti ritrovi in una corte con le statue, le cornucopie che gettano acqua. Il fatto di avere i giardini dentro le case, nascosti – e sono dappertutto – è una cosa… Firenze è tutta fatta di luoghi segreti.
Poi ci sono i monumenti. In “Se fossi fuoco…” il monumento per eccellenza credo sia San Miniato al Monte, dove si conclude il libro, San Miniato che prima di essere una basilica è faro, e un cimitero. È una scelta mirata, certo: vuoi raccontare Firenze? Sì, bravo, infilati lì sotto a quella lapide. Una delle morali del romanzo può essere questa, forse, qualcosa del tipo “qui hanno abitato i titani, non è posto per gli uomini”. In un luogo dove il passato si sedimenta, si stratifica e impone il suo rumore di fondo, soltanto consegnandoti a esso – morendo e facendoti marmo, proprio come i monumenti di Firenze – puoi iniziare a intessere davvero un dialogo.

In questo libro inquadro un contesto preciso: per fare un esempio, di là da Porta Romana comincia un’area che è sempre Firenze ma che va via disperdendosi nell’aretino, nel Valdarno. Già ti senti un po’ montevarchino appena la passi. Ecco, Firenze va ben oltre la cerchia delle mura vasariane, ci sono fiorentini che abitano a Gavinana o a Campo di Marte, e anzi sono per certi molti versi più fiorentini – oltre che molti di più – di coloro che abitano nel centro storico, ma questo libro sceglie scientemente di stare all’interno della cerchia, perché quella che sta dentro è la Firenze che porta più pesantemente sulle spalle tutto quanto è accaduto prima, perchè, insomma, tu puoi abitare con una certa tranquillità a Campo di Marte, che è simile a qualsiasi altro quartiere borghese, belle case, qualche nota storica, ma non c’hai Brunelleschi che incombe su di te. E dunque è il centro l’enigma, la questione rilevante, perchè se io dovessi parlare di quello che sta fuori dalla cerchia, spingendomi a quel punto anche alla periferia, andrei di nuovo agli strumenti, ai toni de “Gli interessi in comune“, è Firenze ma potrebbe essere benissimo Bologna o Padova. Il centro di Firenze, invece, ha tratti in comune solo con quello di Venezia, dove però c’è l’acqua, e quindi è ancora più spopolato ed estremo, ma il fatto che sia estremo lo rende già qualcosa, non so, diventa come le Paludi Morte del Signore degli Anelli, un luogo che fa spavento ma che è anche sede di misteri insondabili. Firenze non è ancora abbastanza spopolata da tornare bella, perchè a Firenze ancora ci sono le persone, le boutique, il traffico, per cui ti confronti quotidianamente con una dialettica che va dal bellissimo al terribile, e alla fine diventi un po’ schizoide, il tuo rapporto con la città diventa per forza un rapporto di amore/odio.
I Personaggi Precari possono avere i loro numeri nella brevità e nell’ellissi narrativa, però poi quando devi costruire un personaggio e sai che te lo devi trovare per cinquanta, cento pagine, questo personaggio deve avere le spalle larghe, non importa a partire da quale spunto tu lo abbia creato.
Sulle strutture geometriche, che dire… Per me, almeno in questo momento della mia attività di scrittore, sono molto importanti. Sono cresciuto con “Le città invisibili”, anche se credo che lo schema interno non dovrebbe essere così visibile; amo molto “Rayuela”, “2666”, “La montagna incantata”… Per fare un altro esempio, “Infinite Jest”, che a prima vista sembra un gran casino, ha invece uno schema geometrico serrato, una struttura ricalcata sul triangolo di Sierpinski affiancata a un lavoro di elevata complessità sulla cronologia, quindi penso che DFW abbia lavorato enormemente sulla geometria interna del libro, non sono cose che si fanno solo con l’intuito o col talento. Con l’esperienza, magari, guadagni la capacità di intuire queste modulazioni già mentre scrivi, ma la schematizzazione per me rimane un punto essenziale del lavoro su un romanzo. Lo schema a volte genera da solo delle idee, dei registri – ti fa vedere delle cose. A un certo punto avevo fatto uno schema di relazioni dei personaggi di “Se fossi fuoco…” che era incredibile, i collegamenti erano rappresentati con linee curve e alla fine ne è uscito un disegno che ricordava alla lontana l’architettura del Duomo… Ovviamente è stato un mio intorto, nato dal semplice fatto che era più pratico mettere le curve basse all’inizio e le alte in mezzo, però è vero che quando lo schema assume una rilevanza simbolica ti dà dei contenuti aggiuntivi, ti dice che cosa il testo può significare.
Schematizzare ti aiuta anche a tappare i buchi o viceversa a decidere cosa togliere. Questo libro inizialmente doveva avere un finale tipo “The Wire”, una serie tv che dà il meglio nell’ultima puntata di ogni stagione, dove c’è una lunghissima carrellata che ripercorre tutti i personaggi e i luoghi della stagione, tutto quello che è successo o sta succedendo, e di fatto ti dice guarda, questa è Baltimora, o il mondo, ed è un ciclo che non si esaurisce mai, e sta proprio lì la “grande narrazione” di quella serie. Inizialmente avevo pensato di fare una cosa del genere, un ultimo capitolo in cui si ripassavano a volo di uccello – anzi stando più bassi, a volo di piccione – tutte le strade e le piazze e i locali e le case, e si ritrovavano tutti i personaggi visti fino a quel momento, presi in un nuovo momento delle loro esistenze, magari intessuti in nuove relazioni. In questo caso è stato uno degli schemi grafici che avevo fatto a dirmi che non ce n’era bisogno. Da esso potevo ben vedere che il libro aveva già una struttura solidamente circolare: un finale che sottolineasse ulteriormente questa circolarità sarebbe stato pedante e quindi l’ho cassato. A un certo punto ho fatto un grafico sul movimento dei personaggi, le vicende di molti dei quali ancora non erano neanche state scritte, e ho notato – quella è stata la prima volta che ho pensato che avrebbe potuto venir fuori qualcosa di valido, di funzionante – che nel primo blocco quasi tutti i protagonisti arrivavano e qualcuno rimaneva, nel secondo blocco alcuni rimanevano e altri se ne andavano, mentre nell’ultimo blocco alcuni scomparivano mentre altri ritornavano. C’era un movimento del tipo arrivare, rimanere/andarsene, tornare. Questo mi fa pensare che Firenze prima ancora di essere un posto da cui andarsene sia un attrattore.
Gli schemi sono utili anche per gestire altre questioni, ad esempio l’ordine delle apparizioni: in “Se fossi fuoco…” c’erano tanti protagonisti – nonostante dalle prime bozze si fossero ridotti perchè avevo preso a ibridarli, a fare delle crasi, ne erano comunque rimasti ventitré – e avevo bisogno di farli apparire secondo modulazioni appropriate. Pensa alla musica, immagina un libro come se avesse vari sottotoni, delle linee melodiche ulteriori. La corrente principale – i bassi, se vogliamo spostare l’esempio sulla musica elettronica – è la narrazione, quello che vedono o fanno i personaggi, poi ci sono delle linee sottostanti, e non parlo solo di linee spaziali, cronologiche e simboliche, ma anche tonali. Per fare un esempio semplice semplice, se in un libro vengono presentati prima cinque personaggi depressi e poi cinque personaggi esaltati, è completamente diverso che presentarli alternati. Una volta creati i caratteri, avevo dunque esigenza di distribuirli all’interno dei vari episodi in modo equilibrato, mantenendo allo stesso tempo un percorso armonico all’interno dello spazio, della mappa fiorentina, e quindi giù schemi.
Già ai tempi de “Gli interessi in comune” facevo molto lavoro in questo senso, anche se erano ancora schemi piuttosto rudimentali; poi nel frattempo è nato il progetto SIC, un’esperienza che ha certamente radicalizzato questo lavoro, influenzandomi anche nella mia scrittura individuale. Il metodo SIC si fonda su un sistema di schede interconnesse che riguardano ogni singolo elemento narrativo, mette il progetto così fortemente davanti al flusso della prosa che lavorare per quattro anni a opere SIC ti cambia, è come un “ritorno dalla breccia” di marca psichedelica: il cambio di paradigma e prospettiva lascia un segno anche dopo essere svanito, ti conferisce un’abilità, un occhio aggiuntivo e differente.
Mentre lavoravo alle prime bozze di “Europa” (romanzo tuttora in riscrittura N.d.R.), sono arrivato a fare delle card – questo viene, credo, da anni di militanza adolescenziale con le Magic – ognuna delle quali rappresentava una scena. Le facevo usando il retro di vecchi biglietti da visita, avevano scritto sopra il nome della scena, mentre agli angoli apponevo linee di diversi colori: rosso, blu, giallo, verde, a seconda di quali dei quattro protagonisti vi apparissero, più un sistema di marcature, un codice, sui margini alti e bassi, per segnalare comprimari, luoghi, nodi simbolici, digressioni e momenti di interazione o conflitto. Sistemavo le card su un tavolo e provavo vari ordini – immaginate una partita a domino. Se due scene diventavano un capitolo spillavo insieme le loro carte e così pian piano il romanzo acquisiva una linea e una compattezza – in quel caso era ancora più necessario perché avendo privilegiato seguire, durante la stesura, le chiavi simboliche piuttosto che gli snodi narrativi, avevo scritto le scene in ordine del tutto sparso. Fatte le card avevo invece davanti questo percorso, in cui potevo capire quali fossero le linee strutturali da far emergere, e anche fare delle prove, degli scambi, in modo molto più agevole, vedevo che per quattro capitoli di fila non appariva il tal protagonista, allora mi chiedevo, come faccio a bilanciare questa cosa? Lo cito qui? Sposto quest’altra scena? E potevo anche provare scelte di più largo respiro, come ribaltare la cronologia dell’intero romanzo o passare a una narrazione per vignette. Provare a comporre e ricomporre intere strutture romanzesche su Word significherebbe doverti rileggere tutto il romanzo ogni volta – significherebbe impazzire.
Purtroppo non si possono fare considerazioni esclusivamente esistenziali, alla fine ti trovi sempre a fare anche considerazioni di ordine pratico. L’Italia funziona in un modo che tu con tanta fatica, piano piano formichina, accumuli tutta una serie di reti, di contatti, relazioni, ambiti di fiducia, lavori fatti, collaborazioni, che ti permettono poi di costruirti un’esistenza. In Italia non esiste quell’idea di ehi oggi ho fatto un colloquio e ho trovato un lavoro molto meglio di quello prima, bam e guadagni il doppio. Qua è un piccolo monte alle croci in cui piano piano si possono costruire, come in un formicaio o un termitaio, delle isolette di esperienza e di riconoscimento che pian piano uno può provare a espandere. Mancano le premesse per avere istinti diversi, e questo limita anche l’emigrazione giovanile, che se si guarda il contesto italiano dovrebbe essere anche maggiore di quanto già non sia. È come se davvero prendi un gruppo di termiti e gli dici bene ragazze allora voi siete cavalli correte! e loro bzzz si mettono a fare un termitaio.
Non credo di essere cooptabile dal potere. No, neanche quando l’immagine del giovane si sovrappone a quella del potere. Al di là del fatto che non c’è nulla di più ignobile di un artista organico, la verità è anche che il problema si pone difficilmente, in quanto uno scrittore, in Italia o nel mondo, ha oggi un’influenza così ridotta da non poter essere semplicemente partecipe della dialettica del potere.
Certo, se un giorno un tuo libro vende un milione di copie, allora è chiaro che le cose cambiano. Questo fatto lo vedi bene con Saviano. L’esempio non è dei migliori perché Saviano si è ritrovato a diventare un’icona anche a causa delle minacce che ha subito, ma è pur vero che la persecuzione da parte del crimine organizzato gli deriva dall’aver venduto un milione di copie. Quando il successo trascende il mondo letterario, che è una nicchia – una subcultura, azzarderei – ed entra nel mainstream vero, ecco che le cose cambiano: quando vedo Saviano, che c’ha un anno meno di me, è un ragazzo, quando vedo che va con Fabio Fazio va a fare la coscienza dell’Italia, o quello che è diventato adesso, di certo un qualche elemento simbolico che va a far parte della nostra variegata e incoerente coscienza nazionale, mi chiedo: cosa sta succedendo? Credo che il punto sia che a quel livello di visibilità entrano in azione forze che uno non può sperare di controllare, se non forse, isolandosi e parlando soltanto tramite i suoi libri. Finchè ti prendi qualche migliaio di euro di anticipo e sopravvivi in provincia, questo problema non ce l’hai: fai comunque parte del proletariato, o del “proletariato della conoscenza”, o al massimo della piccola borghesia artistica se c’hai anche un lavoro dignitoso, una famiglia che ti supporta o qualche proprietà, e dunque sei ben lontano dalla dialettica del potere. Però chiaramente se un domani vendi un milione di copie, improvvisamente si apre un territorio nuovo e spaventoso: se riesci a non diventare organico, ne esci comunque trasformato. Oppure ti trovi costretto a fare opposizione attiva – non so, tipo Pasolini, ma bisogna averne la forza – o ancora optare per la strada dell’isolamento, ma è comunque una scelta difficilissima.
