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Monologo di Vanni Santoni (a volo d’uccello)

21 Mag

Questo breve dialogo tra il Collettivomensa e l’amico Vanni Santoni è stato registrato al Caffè Notte di Firenze a Natale del 2013. Lo pubblichiamo, in forma di monologo, soltanto ora, a distanza di cinque mesi, provando così a non farlo essere un dialogo promozionale ma un monologo prettamente letterario. Visto l’andazzo che prese la conversazione del Caffè Notte in quel che fu Dicembre – in cui noi, ubriachelli, davamo del vagamente-Kubrick a Santoni, e lui ci rispondeva con dei pipponi coltissimi sul senso della sua crescita letteraria, della forma, dello stile e del versificare, ripetendo allo sfinimento che Kubrick con lui non c’entra poi una mazza, tuttalpiù l’ambizione al Malick di tanti anni fa, e nell’intervista qui sotto tutte queste parti ve le risparmiamo – abbiamo deciso che questa sarebbe stata una specie di retrospettiva santoniana a volo d’uccello e non un’istantanea per pubblicizzare la riedizione per Voland di Personaggi Precari (che con un sotterfugio da fighetti pubblicizziamo uguale).

 


 

Avevo 25 anni, mi avvicinai ad una rivista letteraria autoprodotta che si chiamava Mostro: il primo incontro ci fu nel novembre 2003, il secondo già a marzo 2004, roba del genere, ed erano tutti bravi. C’era gente che scriveva a livello ben oltre l’amatoriale, che rifletteva una letteratura di un certo modo. Portai il mio primo racconto ed era una merda rispetto ai loro, e per colmare il gap che avevo dovevo giocare sulla quantità. Cosi aprii il blog per fare un esercitazione continua e uscirono le prime bozze dei miei Personaggi Precari.

Il barone Barozzo da Montamaro fece venire trecento mercenari dalla Svizzera per difendere il feudo da alcuni vicini fattisi ostili. Quando gli svizzeri arrivarono, trovando il feudo così sguarnito eppure prospero, prontamente lo saccheggiarono, stuprando lo stuprabile e ponendo infine sotto assedio il castello. Le deboli difese furono frante in tre ore e mezza, e l’assedio si concluse bevendo il vino dalle botti spaccate e sodomizzando il barone tra gran risate.

Barozzo

 

Questa è una traccia di quell’epoca, bisognava provare qualunque tipo di cosa. Si tratta niente meno che di una parodia del medioevo, è Brancaleone o quel tipo di mondo lì, in cui facendo parodia di un’epoca oltremodo estetizzata la si rende realismo. Questa era un’operazione di quelle: stavo provando a scrivere roba a casaccio per scovare una qualunque via.

Poi è arrivata la disciplina, che deriva dalla responsabilizzazione, che a sua volta deriva dall’avere uno spazio in internet. Se hai un blog ci sono per forza dei lettori, anche se sono tre questi qui ti responsabilizzano, sai che questi sono abituati ad un certo livello più o meno percepito di qualità.

Avevo già provato a scrivere un romanzo ai tempi di Mostro, poi ci fu questo concorso sul miglior personal web, che vinsi facendo la prima sintesi di Personaggi Precari. Ne avevo molti, tipo 1000-2000 che scremai a 500. Lì fu il mio primo gesto letterario, perché selezionando un 10% di quello che hai scritto, di fatto stai facendo delle scelte in termini estetici molto pesanti. Apparentemente sembrava stessi scegliendo i personaggi superficialmente più belli, invece stavo dettando delle linee di poetica.

Ciò che manca in un’impostazione creativa basata sulla quantità è la creazione programmatica, cioè non casuale o su base campionaria. Chiaro che se di Personaggi Precari ne faccio 7000 poi ne scelgo 700; ed è chiaro che in quei 700 ce ne sono 70, che sono l’1%, che incarna davvero una visione del mondo, cioè che hanno una portata romanzesca.

È ben diverso quando si parla del romanzo: in un romanzo ci sono 3 protagonisti, e se ci vuoi fare un romanzo con uno spessore, questi tre devono essere portatori di universi.

Ne Gli interessi in comune (Feltrinelli, 2008) mi trovavo di fronte al problema di dare profondità umana ai personaggi.

Non m’interessava scandalizzare, volevo dimostrare come la sperimentazione con le droghe è oggi un’attività del tutto normalizzata. Questi tizi che popolano il romanzo vagano nella normalità, non sono neanche dei marginali, perché non hanno una controcultura in cui riconoscersi. Un hippy per esempio può davvero prendere degli acidi per farne cultura perché ha una sua controcultura o subcultura in cui rientrare e quindi dice sbagliano gli altri noi abbiamo ragione!

Invece ho scritto sto libro dove c’erano dei tizi smostrati di provincia e poi mi sono reso conto che a rileggerli sembravano degli idioti. Mi accorsi che anche io stavo commettendo degli errori di giudizio, gli stessi errori di chi poi realmente questi ragazzi li giudica. Nel descriverli nei loro comportamenti collettivi li avevo resi banali.

Ci furono quindi in Gli interessi in comune, quei capitoli intermedi tra le varie parti corali in cui invece li prendevo singolarmente, e per dargli spessore gli concedevo dei momenti di approfondimento, ricorrendo alla tecnica che avevo sviluppato con i Personaggi Precari.

Questa tecnica di messa a fuoco qui l’ho ripresa ancora fino all’estremo in Se fossi foco arderei Firenze (Laterza, 2011) in cui effettivamente ci sono dei personaggi precari messi in circolo, strutturati per germogliare in materia romanzesca.

Quello che sto cercando di fare ora è un romanzo fantastico tutto struttura e poco personaggio, e se sto scrivendo un romanzo a metà di un saggio, un libro sulle feste techno, è proprio perché ancora non ho preso esattamente questa misura.

La tecnica nella scrittura è anche stile, quindi non mi ostino nel dominio della tecnica ma mi ostino nel dominio della forma. Conosco le forme romanzesche, forma e/o struttura e le so declinare. Ottenuto questo il mio obiettivo ipotetico è raggiungere il dominio nello stile.

In teoria se uno ha lo stile e la forma può scrivere nella sua esistenza magra almeno un capolavoro. E a questo punto non posso che provarci. I libri li ho pubblicati, nei giornali hanno detto che erano belli, ma di là da questo, l’obiettivo del letterato ad un certo punto deve essere quello di contribuire ad accrescere la qualità letteraria in generale. E noi stiamo già contribuendo, anche senza scrivere capolavori.

Gli scrittori che non scrivono nella loro vita almeno un capolavoro, sono carne da cannone, triste ma necessaria, diceva Bolaño. In una foresta ammiriamo le sequoie o le orchidee e di tutti gli altri cespugli ce ne freghiamo. Ma d’altro canto non trovi un’orchidea in mezzo al deserto o una sequoia in punta alla montagna, i migliori prodotti della foresta li trovi dentro una cazzo di foresta.

Sono arrivato al punto da considerare il romanzo borghese come cosa estinta, il romanzo borghese si è esaurito perché la borghesia è diventata schizofrenica, non è più il paradigma usato per interpretare la realtà. Bisogna superarlo e io ci sto provando.

Ad esempio, il mio film preferito è Badlands di Malick, che è pura sintesi. Demoniaco. Era una storia scritta e riscritta, un film con mille declinazioni, però c’è una fusione drammatica tra forma e stile, anzi di più, c’è uno stile di tale levatura che non ce ne fotte neanche più della forma, diventa irrilevante.

Ecco, mi piacerebbe riuscire con il prossimo romanzo a fare questo, però capisco che è dura per uno scrittore che non è nato geniale. Cazzo, non sono Rimbaud, che raggiunge la sintesi tra forma e stile… a 16 anni.

Temo che il destino dello scrittore non genio che tuttavia è autorizzato dagli dei ad avere un biglietto da giocare alla lotteria passi per forza dal romanzo massimalista. Se non sei Rimbaud se vuoi far uscire un capolavoro devi fare per forza una roba della grandezza di Underworld, 2666, Infinite Jest. Se non porti dentro i germi del genio, è impossibile scrivere un libro come Lo straniero, perché è un libro di questa grandezza così piccolo ha in sé il segreto della sintesi.

 

Scrivo romanzi ma sono un assoluto fautore della totale supremazia della poesia rispetto alla prosa. Perché la prosa utilizza un’illusione, che è la trama, per fare da mediatore tra forma e stile quindi utilizza il metodo come una sorta di stampella per trovare la sintesi.

Pensate che Personaggi Precari alcuni l’hanno visto come poesia, in America per esempio l’hanno pubblicato in un allegato alla rivista Poetry Magazine, che si chiamava Seven italian contemporary poets, interpretandolo e pensandolo come poesia. È sbagliato! Ci sono sì dei personaggi in versi, seppur con delle enormi carenze di metrica, perché la metrica la conosco, e riconosco le debolezze del mio versificare, ma questo non basta per essere poesia. Al massimo un libro del genere potrà essere interpretato un domani come un libro di un autore colto – colto tra virgolette – che gioca con il concetto di poesia e ci gioca proprio perché è un terreno a lui precluso.

Nel momento in cui tu fai poesia dall’esterno e consapevolmente, sei già fuori dal giochino. È un po’ come descrivere Brahman, che è il tutto, quindi o ci sei dentro o ci sei fuori, ma di certo non esiste che uno da fuori prova a descrivere cosa c’è dentro.

 

All’inizio, quando iniziai a scrivere, mi ero prefissato un obiettivo: diventare bravo almeno quanto gli altri membri di Mostro, punto. Non ho mai avuto come obiettivo quello di fare un romanzo. Però avevo letto moltissimi romanzi, la questione strutturale mi era abbastanza chiara, ma ignoravo la questione stilistica, cioè quella sovrapposizione che c’è tra stile e forma che fa sì che un romanzo sia bello oppure no.

Ora che sono arrivato ad avere una percezione molto chiara della struttura romanzesca posso spingermi davvero oltre.

Ad esempio se uno domani mi dicesse mi fai un giallo ambientato a san Frediano? io lo faccio.

Chiaramente ora il mio obiettivo è cambiato ed è diventato qualcosa di più irraggiungibile.

 

Collettivomensa, 2014

 

 

Torino Una Sega TRE

7 Ott

 

LETTURE TERMINALI
Serata di letture a voce alta aperta a chiunque.

Scrittori famosi di tutta l’Italia.

Regolamento:
– 10 minuti a testa
– Leggi una cosa tua + una cosa di qualcun altro
– Leggi cose che fanno accapponare la pelle

 

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Lettera al presidente – Matteo Moscarda

4 Ago

Ormai glisso gli occhi, e parto dalle tette. Le scorgo a distanze telescopiche, catalogo la gamma degli effetti ottici che l’innesto di tessuto e colore, in interazione con la rotondità, produce a ogni passo. La camminata in sé la trovo un’insopportabile ostentazione sessuale: le donne dovrebbero andare in giro su una sedia a rotelle, tutte.

Poi mi avvicino, o si avvicinano loro, insomma, in qualche modo arriviamo a pochi metri di distanza. Lì del palleggio mammario intuisco persino il rumore, come di caciotte fresche in una sportina di plastica, il tonfo del peso, lo schiaffo ghiandolare, lo strusciare millimetrico dell’elastam sui capezzoli e il solletico che ne deriva, quel brivido che vira giù, in picchiata, fino a trafiggere l’ombelico, innescando il calore ventrale e, da esso, quella scintilla inclemente che erige cazzi e clitoridi: ecco, tutto questo lo sento scaturire a ogni sobbalzo. Poi, quando sono a un metro da loro e ne posso finalmente usmare gli ormoni, sospiro, ansimo e sbuffo, non mi trattengo: devo godere, e voglio che loro lo sappiano. Non è sempre stato così, sia chiaro. Si arriva a quest’assenza di paletti interiori solo dopo roventi tribolazioni. Ma ora sì, ora è così: quando mi passa accanto un individuo femminile che mi scoperei, io ho bisogno che lei lo sappia.

Il problema, semmai, è la definizione di “individuo femminile che mi scoperei”. Ecco, qui si scivola facilmente nell’illegale, per dribblare a stento l’osceno e inciampare spesso nell’irragionevole. Perché c’è davvero poco di vaginale che non stantufferei.

Il primo sintomo di questo onnivorismo, o pansessualismo proattivo che dir si voglia, l’ho rilevato la sera del mio trentesimo compleanno. Anzi, a dire il vero quello non è stato il primo sintomo, i sintomi c’erano già, da anni. Ma quella sera ebbi la conferma, la sdoganatura del desiderio indiscriminato, la coscienza che i confini imposti dalla morale non sono che innumerevoli stadi intermedi tra il bene e il male. Faccio un esempio.

Oggi Tizio ha venticinque anni e sta con una venticinquenne. Domani ne ha ventotto e sta con una ventiduenne, un gap anagrafico accettabile. Poi ne fa trenta e si mette con una ventenne. Ecco, qui dieci anni di differenza sembrano tanti, e solo perché parliamo di cifre tonde. Ma se domani Tizio compie trentuno anni e si mette con un’altra ventenne, vogliamo fargli un processo per un anno in più? Eravamo tolleranti per dieci e non lo siamo per undici? E quante adolescenti sanno suggere un cazzo con più metodica dedizione di una trentenne? Io lo so per esperienza, perché quando avevo diciott’anni ci sono stato con delle quattordicenni, e già allora mi davano del pederasta, per scherzo, s’intende. Ma se la trovassi oggi un’adolescente idrovora, se fossi io quel Tizio di trentatré anni che scardina un corpicino, incontrovertibilmente più voluttuoso, setato e imberbe di un involucro trentennale, se me la godessi io quest’origine non ancora slabbrata, non ancora bruna e callosa, bensì soffice e profumata, ma dico, mi si potrebbe davvero dare del porco?

La pedofilia è d’altronde un affare di ordine morale e, come la morale, è un problema sociolinguistico, non ontologico. Tutto varia da cultura a cultura, da secolo a secolo, da morale a morale. Nelle Indie Orientali esiste ancora il matrimonio pre-puberale e tra i Lepcha gli ottantenni se la fanno con le bimbe di otto. Dante Alighieri si innamorò di una Beatrice novenne e la Lauretta di Petrarca ne aveva dodici. E gli antichi Greci, che sbavavano per i giovinetti, non sono stati forse i più grandi filosofi di sempre?

Ma il punto è che non si può additare come depravato uno che ammette di essere affascinato dalle ninfette, perché se dovessimo fare un processo alle intenzioni bisognerebbe arrestare tutti quelli che hanno il porto d’armi. I “deviati” non vanno biasimati senza concedergli l’attenuante dell’innocuità. Perché, come direbbe Philip K. Dick, nessuno è un criminale finché non commette un reato. E perché è più umano bramare un corpo acerbo che una Beretta. Le armi sono feticci di potenza sessuale, mentre un corpo acerbo è un trionfo d’armonia. E come posso io, in quanto esteta, negare il turgore di un’adolescente, del seno vellutato, della lanugine dorata delle cosce, del tepore della sua vulva?

Questo lo capii per il mio trentesimo compleanno, quando la sorellina di un coetaneo mi si sedette sulle gambe, percepì che erano dispari e mi sorrise.

Per contro. Per contro, quando avevo venticinque anni sono stato con una ragazza di trentacinque. Magra come la lupa dantesca, al posto del seno due caramelle e, nei miei ricordi, sempre e solo vestita di fragranza di biscotto, come Lolita. Si chiamava Lora, Lora Salomei, ecco, nome e cognome, e già mi viene duro. Sì. Lora Salomei, ovunque tu sia adesso, sappi che tutt’oggi mi masturbo sul tuo corpo androgino. Ma anche a nominare Elisa Benvenuti faccio fatica a trattenermi.

Anche Elisa era magra, il seno spiovente dalle areole morbide e i fianchi maneggevoli di una mediterranea. La frangetta le terminava sul naso importante, nascondendo le sopracciglia, e il suo ovale di porcellana aveva epicentro in quella tumida rosa orale che Elisa usava con poca consapevolezza ma effetti sorprendenti: la difficoltà di accogliermi interamente, unita all’abnegazione e allo strofinio degli incisivi, la rendeva il cranio più amabile di sempre. Altrettanto magnifico era inondarlo, questo cervelletto nevrotico e idealista che celava negli affettati modi cosmopoliti tutti i vittimismi tipici delle bigotte. È stata la mia unica schiava, Elisa, nonché l’unica ad avermi rinnegato dopo la rottura, a non aver mai davvero capito la nobiltà della mia erotomania. Spero mi legga, adesso, e che abbia sposato un impotente.

E poi ci sono state, in ordine sparso: la robusta Sarah, di cui rimpiango le grosse tette giottiane, il fragore delle fellatio e l’abilità nell’infilarmi in culo qualsiasi cosa le capitasse a tiro; la bionda Maddalena, che si concedeva solo nei bagni pubblici e non prima di una conversazione intellettualmente nobilitante; la corvina Roberta, che lo faceva solo all’aperto; la gigantessa Eleonora, che mi costringeva a leccarla per ore, ingabbiato dalle sue gambe chilometriche, fino a scorticarmi la mediana linguale; la lurida Sibilla, la cui pioggia dorata mi procurò delle placche tonsillari da streptococco; il maschiaccio Amalia, che mi citofonava alle due di notte colta dalla fregola e che sconosceva l’igiene intima; Veronica, dal corpo impeccabile, che mi voleva immobile durante le sue cavalcate; la vergine Valentina, dalla figa serrata da un trauma, che un pomeriggio scorticò il mio bel cazzo nell’infruttuoso e interminabile tentativo di sfondarsi. E potrei continuare in eterno, più o meno volgarmente, con affetto o disgusto, nostalgia o nausea. Con quante donne sono andato a letto? Cinquanta, cento, centocinquanta? Ma soprattutto, quante malattie veneree ho contratto?

A dire il vero, dopo l’asportazione del condiloma che mi costò il meato (nonché iniezioni anestetizzanti sulla cappella, punti di sutura laddove la variabilità dell’afflusso sanguigno lo rende impossibile e lunghe pisciate di sangue), dopo quell’operazione per altro praticata da macellai della chirurgia peniena, ecco, sembra che il mio arnese sia diventato inattaccabile. O magari è divorato da un tumore, chissà, ma l’importante è che funzioni ancora qualche anno, poi diventerà irrilevante.

Detto questo, io rimango convinto di essere vittima di un complotto di tutti coloro sono invidiosi della mia verga infallibile, della mia clave tornita e balda, dell’ampia corona che fa del mio glande un saccheggiatore di tremori. Perché è vero, sono diventato un porco, un pervertito, un erotomane: se da ragazzo una certa promiscuità era persino richiesta, adesso, dall’alto della mia carica, riconosco che meno perdonabile risulta la perpetrata e compiaciuta sodomia della quasi totalità delle mie collaboratrici, segretarie, antagoniste politiche, nonché di tua madre.

È a tal riguardo che devo rimettermi alla tua clemenza, confidando nell’efficacia di questa mia umile apologia e nel tuo buon cuore.

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Selezione Naturale

3 Apr

Selezione Naturale

Lo presentiamo a Firenze, alla libreria Ibs, dove un tempo c’era MelBook, la libreria con lo scaffale dedicato a MelissaP, prequel e sequel, e ora ci siamo noi, Vanni Santoni e Alessandro Raveggi e il Collettivomensa che risiamo noi, e Gregorio Magini e Francesco D’Isa e Valerio Nardoni e Marco Simonelli e noi, curati da Gabriele Merlini e Alessandro Schwazer. Non ci danno uno scaffale intero come per l’amica Melissa ma ci accontentiamo, non l’avremmo comunque meritato.
Lo presentiamo il 6 aprile duemilatredici, alle diciannove ora locale. In contemporanea Povia festeggia 40 anni con un concerto commemorativo a Roma. Ci ruberà lo zoccolo duro del nostro pubblico, ma che ci vuoi fà? La selezione naturale è così, e Povia è il re.

L’Ascensione di Roberto Baggio – intervista a Matteo Salimbeni

24 Gen

“Baggio è un’essenza, non appartiene ai narratori, al pubblico o al calcio stesso. Baggio smette di essere Baggio, smette di essere un calciatore, smette di essere tutti i singoli pezzi che lo compongono, smette di essere una parte specifica della memoria e ascende in una prospettiva mitologica. E’ per questo che Baggio si può permettere di attraversare le epoche storiche, di andare a ritroso nel tempo e di essere un goal che non è stato, si può permettere di essere qualsiasi cosa, per questo Baggio è tutto.”

 

L’Ascensione di Roberto Baggio, di Matteo Salimbeni  e Vanni Santoni (Mattioli 2011) è un libro che a mia madre non piace, perché a mia madre il calcio non è mai piaciuto. E vallo a spiegare poi a mia madre questo non è un romanzo sul calcio e che il calcio in questo libro non è altro che un magico luogo attorno al quale tutto accade, un po’ come è un luogo il mare nell’Odissea (l’Odissea non è un poema sul mare pure se il mare effettivamente c’è, ed è ovunque), e poi, lo capirebbe mai, la mia povera mamma, che questo romanzo non è neanche una biografia di Roberto Baggio – negli stessi termini per cui l’Odissea non è la biografia di Ulisse chiaro – ma altresì un romanzo vero e proprio, che narra della metamorfosi epica di un campione maledetto che con il suo genio e i suoi tormenti trascende dal suo piedino fatato marchio Diadora e diventa nientedimeno che un mito. Forse lo capirebbe mia madre, se le spiegassi che in definitiva L’Ascensione di Roberto Baggio non è Fabio Caressa che sbarella in tv in una calda notte di luglio duemilasei, niente affatto, ma è qualcosa che si avvicina molto di più ad una Via Crucis, alla folgorazione di un popolo intero per un esile calciatore col codino, per di più perdente, manco Paolo Brosio a Medjugorje. E forse se capisse questo sarei quasi sicuro che il romanzo di Salimbeni e Santoni le piacerebbe pure e tanto. 

Di epopee, genio e Roberto Baggio parliamo in questa intervista con Matteo Salimbeni, e chissà che almeno a lui, col suo fare affabile che tanto piace alle cinquantenni, mia madre dia ascolto e si redima. 

 

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COLLETTIVOMENSA INTERVISTA MATTEO SALIMBENI: 

 

“L’idea di scrivere un romanzo su Roberto Baggio ci è venuta otto anni fa (nel 2003 ndr). È nata come un esercizio letterario su una passione condivisa, nella quale riconoscevamo sempre più elementi di spunto per un romanzo. Ogni volta che ci appropriavamo di una serie di elementi sulla sua incredibile vicenda umana e sportiva ci accorgevamo di trovarci catapultati in altrettante e diverse storie e punti di vista in cui per forza bisognava addentrarsi. Questa possibilità di analizzare il personaggio da diverse sfaccettature era resa possibile in un certo senso dall’eterna fragilità di Roberto Baggio, che invece la storia di altri campioni, chiusi nel loro perfetto guscio granitico, non ci avrebbe permesso.

Per questo ci è venuto naturale scrivere un romanzo e non un’autobiografia, andare aldilà di Baggio uomo e creare un viaggio mitologico all’interno dei 20 anni in cui Roberto ha giocato a calcio: un viaggio letterario, in cui la figura del campione è il mezzo che ti permette di relazionare il calcio parlato, le mitologie delle piazze, la rappresentazione più vera della pancia italiana, tutti significati che vanno oltre il gesto sportivo, cosa che altri calciatori per la loro storia non ti permettono. Forse un mito come Maradona te lo permetterebbe. Anche se Maradona ti lascia meno margine d’interpretazione, perché si identifica con la squadra, perché ha vinto molto di più, perché è un campione riconosciuto. Baggio sintetizza una poesia tragica per certi versi meno stereotipabile. Ha più contraddizioni. Ti permette di esplorare molti più campi. Il fatto che non abbia mai vinto; il fatto che sia stato il simbolo di una Nazione per 16 anni- e prima e dopo di lui l’Italia abbia vinto i suoi Mondiali, cioè lui è arrivato e l’Italia ha smesso di vincere, lui è andato via e l’Italia ha ripreso a vincere; il fatto che abbia giocato con un ginocchio spaccato per 20 anni; il fatto che non si sia mai fermato in una città; il fatto che, pur essendo uno dei giocatori più forti di sempre, non solo non ha mai vinto, ma non ha mai avuto la prosopopea del campione. 

Per iniziare abbiamo cominciato a osservare Baggio da tantissimi punti di vista. Ogni punto di vista comprendeva una tematica, un piano di lettura differente. Baggio dal punto di vista tecnico, Baggio dal punto di vista spirituale, umano eccetera. Ognuna di queste riflessioni è diventata un racconto. Infine abbiamo creato una cornice: due personaggi senza volto cui viene chiesto da un improbabile editore di andare a cercare per l’Italia Roberto Baggio. Solo che loro non si ricordano chi sia, Baggio. Lo ricorderanno nel corso del tragitto. La struttura del romanzo è quindi composta da due filoni: uno è quello dei due narratori e del loro viaggio, l’altro è quello dei racconti veri e propri che avvengono per bocca dei personaggi che i due narratori incontrano. Questo schema può risultare un po’ approssimativo e ingenuo, però in alcuni momenti ha dei pregi enormi. Per esempio, ci ha permesso di fare dei ritratti dettagliati della Pinetina, di Milanello, di ciò che ruota intorno al campo da calcio, delle città, al paesaggio sportivo italiano. 

Raccontiamo di Baggio relazionandolo con tutto: con le squadre, coi compagni, con gli allenatori, costruendo una mitologia che è abbastanza malleabile. Baggio a Brescia è una cosa, a Bologna è un’altra, a Italia ’90 un’altra ancora: in modo palpabile, netto. Le tappe di Baggio sono delle ere, degli obelischi, ora di ghiaccio ora di fuoco. L’Ascensione di Roberto Baggio non è propriamente una Via Crucis, l’affinità Baggio-Cristo c’è in alcuni momenti del romanzo, ma non è la chiave di lettura. Tutto il percorso non è stato pensato in quella direzione lì. L’idea di smaterializzare Baggio, è venuta fuori perché era il modo più onesto di rispecchiare il fatto che ognuno conserva un ricordo, un frammento, un pezzo di Baggio dentro di sé, che non sempre riguarda il Baggio atleta. Una serie di spezzoni di memoria che appartengono all’Italia nella sua parte più intima. La progressione tra le varie stazioni che scandiscono la vita di Roberto Baggio non è pensata in termini cristologici, ma è indubbio che partendo dalla città, quindi dall’esperienza più percepibile e immediata, e poi via via ampliando i significati fino alla consacrazione calcistica di Baggio, che è il simbolo dell’Italia, in una squadra come il Brescia, si delinei un percorso che ascende verso il metafisico. È bello vedere come ogni cosa che Baggio tocca cambi volto. Baggio innesca delle reazioni chimiche su più strati. Ovunque si posi riesce ad illuminare e mettere in discussione una scala di valori. Ma è ancora più bello scoprire che questa qualità mitopoietica di Baggio non segue un percorso univoco. A seconda di dove si posa Baggio crea un processo epico diverso, un racconto che ha uno stile diverso dal precedente. E infatti, in ogni luogo noi abbiamo visto una leggenda incredibilmente nuova. Come se stessimo parlando di un altro calciatore, anche se poi era sempre lo stesso. Forse è questo che ci ha permesso di arrivare a quel particolare finale: Baggio trascende un volto, un significato unico. 

All’inizio, quando abbiamo suddiviso la storia in momenti storici, capitali spirituali e calcistiche di Baggio, ci siamo accorti che ogni capitolo parlava una lingua completamente diversa. Questo ci ha permesso di non parlare soltanto di Baggio, ma di essere laterali, di andare in altri territori. Brescia ci ha permesso di parlare della Leonessa d’Italia che risorge e trova nuova mitologia, nuovo materiale, nuova carne da masticare. Firenze ci ha permesso di parlare della capitale del Rinascimento orfana del suo più grande artista, Antonioni, di un passaggio di bandiera che poi è stato vanificato. Italia ’90 di come Baggio diventi musica. La musica di notti magiche.  Fino ad arrivare a Caldogno, in cui tutto esplode, e dove convivono tutte le epoche e fasi storiche di Baggio.

All’inizio il titolo era ‘La maledizione di Roberto Baggio’, poi l’abbiamo tramutato in ‘L’Ascensione…’ perché la maledizione non rappresentava il movimento del libro. L’ascensione si porta dietro un movimento molto più eterogeneo, che lascia più possibilità di analisi, anche se la maledizione è un motivo ricorrente nella vita di Baggio (il campione che perde). Da un certo punto di vista è stato meglio così. Vincere un mondiale con Baggio sarebbe stato sconvolgente perché avrebbe aperto un varco di emotività, di alterità rispetto allo spirito in cui gli italiani si riconoscono. Ovvero quello con cui l’Italia nel 2006 ha vinto i mondiali. Vincere un mondiale con Baggio sarebbe stato un precedente letale, perché l’Italia si sarebbe specchiata in qualcosa di così magnifico che da lì in poi niente avrebbe avuto più significato. 

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Ogni eroe che si rispetti attira a sé i suoi nemici, e in questo romanzo gli antagonisti sono tanti. Dovendo superare delle tappe, Baggio da giocatore ha la possibilità di duellare e anche di perdere. Lippi è un’antagonista, Sacchi è un’antagonista, quasi tutti gli allenatori sono stati antagonisti. A livello istituzionale avviene sempre uno scontro di personalità, di geometrie, di conflitto col genio. Ed è per questo che gli allenatori sono gli antagonisti per eccellenza di Baggio-genio. L’allenatore deve gestire una squadra, deve tenere conto di simmetrie, deve essere diabolico, la simmetria è diabolica. L’allenatore deve, in qualche modo, chiudere la squadra. Tenerla e in maglie molto strette. L’enorme maglia del numero 10 o del genio è ben difficile gestirla, devi fare un grandissimo passo indietro.

Ma anche, da un certo punto di vista, il popolo italiano non gli è stato favorevole. È difficile che il genio in Italia, il genio, non il talento, venga fuori, e gli venga dato il terreno giusto per crescere. Poi,  nel momento in cui c’è, viene osannato. Basta vedere in occasione dei mondiali del 2002. C’erano le paginate, con Baggio. Tumulti. Ma anche i non geni vengono osannati, quindi… Il genio non può far regola. E’ pericoloso. Il genio- intendendolo come movimento libertario, cioè come l’eccezione fa l’eccezione, l’eccezione che costruisce una cattedrale di eccezioni. 

Baggio è un personaggio perfetto perché è mobile, diciamo che la sua caratteristica sta in questo, e in questo sta la possibilità di scrivere un Romanzo, di trasformare un uomo in un’avventura letteraria. Baggio non è mai uguale a se stesso, e questo esige che tu cerchi una verità differente in ogni suo aspetto.”

 

(Grazie a Viviana che ha sbobinato il malloppo)