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Lettera al presidente – Matteo Moscarda

4 Ago

Ormai glisso gli occhi, e parto dalle tette. Le scorgo a distanze telescopiche, catalogo la gamma degli effetti ottici che l’innesto di tessuto e colore, in interazione con la rotondità, produce a ogni passo. La camminata in sé la trovo un’insopportabile ostentazione sessuale: le donne dovrebbero andare in giro su una sedia a rotelle, tutte.

Poi mi avvicino, o si avvicinano loro, insomma, in qualche modo arriviamo a pochi metri di distanza. Lì del palleggio mammario intuisco persino il rumore, come di caciotte fresche in una sportina di plastica, il tonfo del peso, lo schiaffo ghiandolare, lo strusciare millimetrico dell’elastam sui capezzoli e il solletico che ne deriva, quel brivido che vira giù, in picchiata, fino a trafiggere l’ombelico, innescando il calore ventrale e, da esso, quella scintilla inclemente che erige cazzi e clitoridi: ecco, tutto questo lo sento scaturire a ogni sobbalzo. Poi, quando sono a un metro da loro e ne posso finalmente usmare gli ormoni, sospiro, ansimo e sbuffo, non mi trattengo: devo godere, e voglio che loro lo sappiano. Non è sempre stato così, sia chiaro. Si arriva a quest’assenza di paletti interiori solo dopo roventi tribolazioni. Ma ora sì, ora è così: quando mi passa accanto un individuo femminile che mi scoperei, io ho bisogno che lei lo sappia.

Il problema, semmai, è la definizione di “individuo femminile che mi scoperei”. Ecco, qui si scivola facilmente nell’illegale, per dribblare a stento l’osceno e inciampare spesso nell’irragionevole. Perché c’è davvero poco di vaginale che non stantufferei.

Il primo sintomo di questo onnivorismo, o pansessualismo proattivo che dir si voglia, l’ho rilevato la sera del mio trentesimo compleanno. Anzi, a dire il vero quello non è stato il primo sintomo, i sintomi c’erano già, da anni. Ma quella sera ebbi la conferma, la sdoganatura del desiderio indiscriminato, la coscienza che i confini imposti dalla morale non sono che innumerevoli stadi intermedi tra il bene e il male. Faccio un esempio.

Oggi Tizio ha venticinque anni e sta con una venticinquenne. Domani ne ha ventotto e sta con una ventiduenne, un gap anagrafico accettabile. Poi ne fa trenta e si mette con una ventenne. Ecco, qui dieci anni di differenza sembrano tanti, e solo perché parliamo di cifre tonde. Ma se domani Tizio compie trentuno anni e si mette con un’altra ventenne, vogliamo fargli un processo per un anno in più? Eravamo tolleranti per dieci e non lo siamo per undici? E quante adolescenti sanno suggere un cazzo con più metodica dedizione di una trentenne? Io lo so per esperienza, perché quando avevo diciott’anni ci sono stato con delle quattordicenni, e già allora mi davano del pederasta, per scherzo, s’intende. Ma se la trovassi oggi un’adolescente idrovora, se fossi io quel Tizio di trentatré anni che scardina un corpicino, incontrovertibilmente più voluttuoso, setato e imberbe di un involucro trentennale, se me la godessi io quest’origine non ancora slabbrata, non ancora bruna e callosa, bensì soffice e profumata, ma dico, mi si potrebbe davvero dare del porco?

La pedofilia è d’altronde un affare di ordine morale e, come la morale, è un problema sociolinguistico, non ontologico. Tutto varia da cultura a cultura, da secolo a secolo, da morale a morale. Nelle Indie Orientali esiste ancora il matrimonio pre-puberale e tra i Lepcha gli ottantenni se la fanno con le bimbe di otto. Dante Alighieri si innamorò di una Beatrice novenne e la Lauretta di Petrarca ne aveva dodici. E gli antichi Greci, che sbavavano per i giovinetti, non sono stati forse i più grandi filosofi di sempre?

Ma il punto è che non si può additare come depravato uno che ammette di essere affascinato dalle ninfette, perché se dovessimo fare un processo alle intenzioni bisognerebbe arrestare tutti quelli che hanno il porto d’armi. I “deviati” non vanno biasimati senza concedergli l’attenuante dell’innocuità. Perché, come direbbe Philip K. Dick, nessuno è un criminale finché non commette un reato. E perché è più umano bramare un corpo acerbo che una Beretta. Le armi sono feticci di potenza sessuale, mentre un corpo acerbo è un trionfo d’armonia. E come posso io, in quanto esteta, negare il turgore di un’adolescente, del seno vellutato, della lanugine dorata delle cosce, del tepore della sua vulva?

Questo lo capii per il mio trentesimo compleanno, quando la sorellina di un coetaneo mi si sedette sulle gambe, percepì che erano dispari e mi sorrise.

Per contro. Per contro, quando avevo venticinque anni sono stato con una ragazza di trentacinque. Magra come la lupa dantesca, al posto del seno due caramelle e, nei miei ricordi, sempre e solo vestita di fragranza di biscotto, come Lolita. Si chiamava Lora, Lora Salomei, ecco, nome e cognome, e già mi viene duro. Sì. Lora Salomei, ovunque tu sia adesso, sappi che tutt’oggi mi masturbo sul tuo corpo androgino. Ma anche a nominare Elisa Benvenuti faccio fatica a trattenermi.

Anche Elisa era magra, il seno spiovente dalle areole morbide e i fianchi maneggevoli di una mediterranea. La frangetta le terminava sul naso importante, nascondendo le sopracciglia, e il suo ovale di porcellana aveva epicentro in quella tumida rosa orale che Elisa usava con poca consapevolezza ma effetti sorprendenti: la difficoltà di accogliermi interamente, unita all’abnegazione e allo strofinio degli incisivi, la rendeva il cranio più amabile di sempre. Altrettanto magnifico era inondarlo, questo cervelletto nevrotico e idealista che celava negli affettati modi cosmopoliti tutti i vittimismi tipici delle bigotte. È stata la mia unica schiava, Elisa, nonché l’unica ad avermi rinnegato dopo la rottura, a non aver mai davvero capito la nobiltà della mia erotomania. Spero mi legga, adesso, e che abbia sposato un impotente.

E poi ci sono state, in ordine sparso: la robusta Sarah, di cui rimpiango le grosse tette giottiane, il fragore delle fellatio e l’abilità nell’infilarmi in culo qualsiasi cosa le capitasse a tiro; la bionda Maddalena, che si concedeva solo nei bagni pubblici e non prima di una conversazione intellettualmente nobilitante; la corvina Roberta, che lo faceva solo all’aperto; la gigantessa Eleonora, che mi costringeva a leccarla per ore, ingabbiato dalle sue gambe chilometriche, fino a scorticarmi la mediana linguale; la lurida Sibilla, la cui pioggia dorata mi procurò delle placche tonsillari da streptococco; il maschiaccio Amalia, che mi citofonava alle due di notte colta dalla fregola e che sconosceva l’igiene intima; Veronica, dal corpo impeccabile, che mi voleva immobile durante le sue cavalcate; la vergine Valentina, dalla figa serrata da un trauma, che un pomeriggio scorticò il mio bel cazzo nell’infruttuoso e interminabile tentativo di sfondarsi. E potrei continuare in eterno, più o meno volgarmente, con affetto o disgusto, nostalgia o nausea. Con quante donne sono andato a letto? Cinquanta, cento, centocinquanta? Ma soprattutto, quante malattie veneree ho contratto?

A dire il vero, dopo l’asportazione del condiloma che mi costò il meato (nonché iniezioni anestetizzanti sulla cappella, punti di sutura laddove la variabilità dell’afflusso sanguigno lo rende impossibile e lunghe pisciate di sangue), dopo quell’operazione per altro praticata da macellai della chirurgia peniena, ecco, sembra che il mio arnese sia diventato inattaccabile. O magari è divorato da un tumore, chissà, ma l’importante è che funzioni ancora qualche anno, poi diventerà irrilevante.

Detto questo, io rimango convinto di essere vittima di un complotto di tutti coloro sono invidiosi della mia verga infallibile, della mia clave tornita e balda, dell’ampia corona che fa del mio glande un saccheggiatore di tremori. Perché è vero, sono diventato un porco, un pervertito, un erotomane: se da ragazzo una certa promiscuità era persino richiesta, adesso, dall’alto della mia carica, riconosco che meno perdonabile risulta la perpetrata e compiaciuta sodomia della quasi totalità delle mie collaboratrici, segretarie, antagoniste politiche, nonché di tua madre.

È a tal riguardo che devo rimettermi alla tua clemenza, confidando nell’efficacia di questa mia umile apologia e nel tuo buon cuore.