Dreadlock! (episodio pilota) – di Jacopo Nacci

13 Dic

Le ginocchia flesse, le mani che stringono l’orlo del tetto, i lucchetti giganteschi e neri che pendono gravi nel vuoto, osserva sotto di sé Piazza dell’Unità, ragazzini giocano nel campo da basket. Da un’ora l’etiope entra ed esce dal suo negozio, che è una vetrina vuota e una scritta incomprensibile. Adesso lo vede salutare, con un gesto del braccio torto e sottile, il giovane bengalese che alza la serranda della Kebab House lì accanto. Negli auricolari suona Hero di Nas, la playlist di Matteo esprime l’idea di Matteo sull’intera faccenda. Dreadlock sorride, di questo potere non sa bene che fare, solo confida nella voce che da ventisette giorni parla dentro di lui e lo spinge sulle strade, sopra le strade. Ma il crimine è astratto, la sua rete avvolge il pianeta, a che serve spaventare strozzini e caporali del lavoro nero se un ricattato ha bisogno del ricattatore, se è lui a cercarlo? Così Babilonia ha inventato la soluzione: se rendi inutile il bene stringi il mondo nel pugno, nessuno può muoversi. Comprende che l’effetto della ganja sta svanendo: ha pensieri da debole. Tra poco esalerà da se stesso e il residuo fisico si complicherà in una muscolatura contratta dall’assillo, in eccessi di trigliceridi irragionevoli, un corpo che si autocensura, organi individualisti che coltivano paranoie, reclamano attenzione, richiamano informazione, inquinano il silenzio necessario alla vita, il corpo da corpo si farà corpo occidentale.
Respira. Apre le braccia ampie. Scaccia dalla mente l’incaponirsi. Sorride. Si solleva sulle gambe generose, i piedi leggermente costretti nelle scarpe da ginnastica verdi, che non gli dispiacciono, ma avrebbe preferito averne di non prodotte da multinazionali: a questo Matteo avrebbe dovuto pensare, ma è difficile pensare come Dreadlock quando si è Matteo, Dreadlock lo sa, non si lascia inquinare dalla riprovazione. I jeans al ginocchio e la maglietta gialla snudano muscoli moreschi, sontuosi. I lucchetti crollano ovunque dal capo, una grandine di nodi fino ai fianchi. La mano destra si alza e convoca il più diffuso tra i quattro elementi, le iridi divorano i bulbi oculari, sfere nere al posto degli occhi. Il vento risponde. Dreadlock si volta verso sud, corre e si lancia nel vuoto come un saltatore in lungo: il vento lo accoglie, lo solleva sulle strade di Bologna, assiste il suo balzo fino al prossimo tetto e qui dolcemente lo accompagna nell’approdo, morbido, il rasta gigante proteso in avanti, le braccia che creano equilibrio, le gambe flessuose non interrompono la corsa.

Da Lorenzo, Matteo sudato e affamato cerca di nuovo il miracolo, la novità che in ventisette giorni è divenuta familiare. Lorenzo sostiene che Dreadlock ha invece ventisei anni: non c’è nulla in te, dice a Matteo, che non venga da te. E Matteo gli dà ragione, è un teorema che agevolmente svolge, ma avverte in modo oscuro che Dreadlock non sarebbe d’accordo.
Ventisette giorni prima erano a casa di Lorenzo. Matteo su una sedia fabbricata a Bamako con tre tipi diversi di legno, Lorenzo steso sul divano ricoperto di un telo nero e setoso. Persiane chiuse, penzolava tra loro una lanterna marocchina che rimescolava ombra e luce arancione sui manifesti dei rave europei e asiatici, sul gigantesco telo parietale: un serpente a due teste nero in campo ocra. Suonava il Massive Dub Box Set della Trojan e Lorenzo aveva questa cosa da dire: d’aver ricevuto della ganja che, gli aveva detto quello che gliela aveva venduta, è cresciuta sulla tomba di Re Salomone. Matteo era scoppiato a ridere. Lorenzo aveva aperto un bauletto verde smeraldo, filamenti dorati ne arabescavano i contorni. Ne aveva tratto un involto di cellophane dal ripieno di diversi verdi, lo aveva srotolato a lungo, con cura, fino a metterne a nudo il cuore vegetale.
– Conosco il mio uomo.
– Quanto lo conosci, il tuo uomo?
– Mi ha ospitato in Nepal. È di Lumbini.
– E tu credi a un nepalese che ti smazza dell’erba sostenendo che è di Re Salomone.
– Senz’altro, – aveva detto Lorenzo mostrando alla luce della lanterna l’agglomerato di verdi – specialmente se è un mistico che ha settant’anni e ne dimostra quarantadue, se ritiene la menzogna un’asma del karma e se la tomba di Salomone si trova a Kapilavastu, venticinque chilometri da Lumbini, in Nepal, come sostiene anche Giuseppe Tucci.
– Capirai, Tucci, uno che ha firmato pure il manifesto della razza.
– Non ha fatto solo quello, sai – aveva detto Lorenzo senza guardarlo, staccando una cima.

Il campo di basket è vuoto, di notte. Li vede arrivare dalla sua destra, in basso sulla strada, formiche bianche vestite di nero, grossi come sono grossi i bianchi: muscoli enormi, ipertrofici, legati tra loro dalla colla del grasso che li rende levigati. Nota bastoni gommati. Non sa se si può. Non crede: niente armi, avevano sostenuto, solo cellulari; invece ognuno aveva immaginato e molti sperato come sarebbe andata a finire. L’ipocrisia ha spazzato la strada, la nevrosi esce in parata. Barcollano, ridono, offendono l’umano. Bevono. Non sa se si può. Coglie frammenti di volgarità, una caricatura della civiltà, la fregatura dell’età dei lumi. Battono con i bastoni sulle serrande calate, rintronare di ferraglia che copre per poco il dire sguaiato. Più in là, su un percorso prevedibile, la serranda abbassata a metà del negozio di nulla dell’etiope. Nel suo cuore Jah parla, ma che fare? Legge, o giustizia, o bene? La legge è ingiusta, la giustizia è spietata. Nemmeno a porsi la domanda, ma il bene è complicato, diverso ogni volta.
La ronda s’è fermata prima di arrivare al negozio, davanti alla Kebab House. Non piace a Dreadlock. Il vento accoglie il rasta che precipita ad arti spalancati, gli serve un atterraggio morbido. L’asfalto rilascia il calore del giorno, lo sente attraverso la gomma delle scarpe. Si nasconde dietro un albero, nei pressi del campo da basket, abbastanza vicino da ascoltare. Non è solo: avverte sguardi richiamati alle finestre dai versi della ronda. Sono entrati in tre nella Kebab House, due in piedi davanti al banco fanno mostra delle spalle enormi, uno di profilo s’appoggia al muro di sinistra; dietro il vetro del banco li guardano due bengalesi in camicia bianca: il giovane, capelli stirati alla nuca dalla brillantina, l’altro più anziano, ciuffi anarchici striati di bianco. Di entrambi coglie l’allarme.
– Sei Moretti – fa un rondista, con il bastone indica il vecchio.
– No bira, – fa il giovane, alza le mani e si indica l’orologio, – tardi.
– “Birra”, non “bira”, – fa il rondista.
– No bira. Sì, – conferma il giovane.
– Questo non capisce un cazzo – fa il più grosso di tutti, poi al bengalese – l’italiano dovete parlare. A noi le birre le dai, noi siamo la ronda.
Il negoziante anziano tace, si abbassa, apre due sportelli e mette sul banco sei Moretti, tre per mano.
– Sedici e venti – fa il ragazzo, lo sguardo altrove.
– Ecco, – il rondista massiccio mette una banconota da venti sul banco, – e fa’ lo scontrino.
Il giovane batte sul registratore, lo scontrino cresce e lui lo strappa, lo poggia sul banco. Si abbassa e sfila tre buste di plastica bianca da una qualche trincea. In quel momento quello appoggiato al muro si desta. È giovane, ha la voce fatta dal disprezzo:
– Eh! Eh! Eh! Che cazzo fai? Vendi birre dopo le dieci? Eh?! Vendi birre dopo le dieci? Adesso – brandisce un cellulare argenteo – lo chiediamo ai carabinieri, cosa dobbiamo fare di voi.
Il giovane bengalese indica il tizio grosso che ha chiesto le birre:
– Lui ha detto può. Lui ha detto, – non c’è speranza nella voce, c’è protesta al gioco vigliacco.
– Cos’ho detto io? Qualcuno ha sentito niente?
Scoppiano risa, più aperte di prima, nervose: salgono i giri, c’è attesa, la festa è vicina. I tre rimasti all’esterno guardano dentro. Non s’accorgono che da sotto alla serranda del negozio accanto sbuca la testa dell’etiope, poi il corpo, i piedi, poi il braccio con il fucile. Solo ora uno si volta:
– Ei, aspett…
– Viaaa! – grida l’etiope con voce roca, sudato, il volto contratto, il fucile che mira.
S’alzano mani di resa, le pance tremano sui corpi immobili, s’alzano i no no no, i calma calma calma. Quelli che stavano dentro escon fuori, cauti s’adeguano a mani in alto. Un bastone gommoso cade a terra. L’etiope muove ora la bocca di fuoco sulla ronda, lentamente.
– Sono italiano! – ripete antiritmico, abbassa lo sguardo e lascia la mano sul grilletto a reggere il fucile, l’altra che fruga nella tasca mentre il fucile traballa, no no no fa la ronda; l’etiope scartoccia qualcosa, lo espone, – sono italiano! – ghigna, – adesso basta: adesso io faccio ronda!
Il vento segue le indicazioni di Dreadlock, il potere degli occhi anneriti: con un colpo secco strappa il fucile dall’etiope, ora perplesso, in una mano la carta misteriosa e l’altra all’improvviso nuda nell’aria. La ronda lo assale urlando. Un istante prima dell’urto Dreadlock è nel mezzo, in mano il fucile raccolto dal vento. La ronda gli è quasi sopra. I primi due volano alle sue spalle, come proiettati da una pedana invisibile. Goffi sacchi neri in lenta parata aerea. Per gli altri bastano mani e piedi e ora in tre sono a terra storditi. Sente l’etiope pronunciare lunghe formule magiche alle sue spalle. Si disfa del fucile che scompare nel buio dall’altra parte della strada. Gli è ora addosso il giovane dalla voce di disprezzo, tignoso. Nella stretta di lui distingue una figura massiccia attraversare la strada correndo: il fucile! È un gesto istintivo della mano quello che rende violenta l’aria, il rondista diretto al fucile si fa concavo nella pancia, arcuato, le braccia e le gambe tese in avanti mentre sorvola la strada all’indietro. L’impatto con la vetrina dà brividi a Dreadlock, lame di vetro cadono sul rondista urlante, arti impazziti, schizzi di sangue. Quello che lottava con lui è ora immobile:
– Babbo! – urla, – babbo! – si getta sul corpo che ha occhi sbarrati e un vetro confitto in un lato del collo, grida su Dreadlock lapilli di bava – pezzo di merda! Negro! Ti ammazzo! – fruga nella cinta del padre: una pistola. La punta.
Il rasta non si muove, si abbandona alla certezza di morte, accoglie la calma:
– Non farlo. Posso salvare quell’uomo. Lascia che lo prenda.
– Ti ammazzo! Che cazzo dici! Ti ammazzooo!
– Guarda, – muove l’indice, il giovane sente una brezza, una lama di vetro si solleva dal braccio dell’uomo ferito e levita nell’aria, – posso fare molte cose. Posso portarlo in osped…
Ma uno sparo rimbomba e la spalla gli esplode, vede il giovane sorpreso guardarsi intorno. La mano sinistra corre al dolore e affonda in un liquido colloso. Poi un altro colpo e non è per lui, un rantolo alle spalle, si volta e l’etiope è a terra scomposto, gli occhi sbarrati, sangue dalla tempia, la mano che abbandona una foto in bianco e nero, consumata: un uomo bianco in uniforme cachi, il sorriso che taglia il volto antico e spigoloso, un fucile in mano e una donna africana al fianco.
Il rondista che ha sparato è in mezzo alla strada, il fucile dell’etiope tra le braccia, gli occhi della follia.
– T’ho ammazzato negro di merda. Italiano ’sto cazzo. Italiano ’sto cazzooo!
Dreadlock sente le forze abbandonarlo, il vuoto crescergli dentro i muscoli, chiede aiuto al vento, il terzo proiettile gli sfiora il piede sinistro mentre sale nel nero dei tetti.

Si sveglia ed è sul divano di Lorenzo. Sente da subito una febbre potente e un dolore sconosciuto. La mano corre alla spalla, trova la fasciatura.
– Stai benissimo – fa Lorenzo, un joint gli pende dalla bocca, ha tra le mani una tazza che porge all’amico – bevi questo, oggi niente caffè.
– Devo andare in ospedale.
– Certo, e cosa gli racconti? Tranquillo, non hai più nulla in corpo. Ho levato tutto.
– Ma…
– Fidati. Nei Balcani si imparano molte cose e molto bene. To’ – si toglie il joint dalle labbra, la mette tra quelle dell’amico – fuma: ti serve un corpo che reagisca meglio e soffra di meno.
– Un uomo è morto, Lorenzo – aspira forte dal filtro – forse due.
– Lasci? – domanda l’amico, e Matteo fuma e considera, vorrebbe rispondere ma non sa la risposta. Riconosce la transizione che avviene. Scatta in piedi, il dolore è una storia remota, che non lo coinvolge. Rimane aggrappato a lembi di pensiero mentre il pensiero è risucchiato altrove da una corrente invincibile. Il corpo trema per lunghi istanti. Poi si deforma, si amplia. I muscoli si sviluppano, la pelle scurisce, le labbra si gonfiano. La fasciatura si strappa, i capelli scendono e si annodano. L’espressione, da vacua, conquista una calma seria.
– Anche in questo momento sento la voce dell’Onnipotente dentro di me, sai Lorenzo. Vuol dire che va bene così, e se anche sbaglio non ho timore, – enorme, il rasta sorride – grazie di tutto, mi faccio vivo io.
Lascia a Lorenzo ciò che rimane del joint. Va alla finestra, la spalanca. L’iride divora il bulbo oculare, Dreadlock si lancia nel vuoto.

Jacopo Nacci, Collettivomensa SpecialOne, Firenze 2009

3 Risposte to “Dreadlock! (episodio pilota) – di Jacopo Nacci”

  1. Jacopo Nacci 13 dicembre 2009 a 16:34 #

    Yo!

  2. Alessandro Forlani 13 dicembre 2009 a 20:20 #

    simpaticissimo! :-)

  3. sarmizegetusa 14 dicembre 2009 a 02:41 #

    vogliamo anche le illustrazioniiiii

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